3
Ago
2010

Bassa produttività, lo schiaffo che ci affoga

Devono fare riflettere, i dati sulla bassa produttività italiana resi noti oggi dall’Istat. Tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7%. Ma nopn è questione di cruisi, è un problema che viene da lontano. Nell’intero arco trentennale tra il 1980 e il 2009 è cresciuta solo dell’1,2% annuo. La Banca d’Italia evidenzia che nei 10 anni precedenti la crisi, la produttività per ora lavorata è salita del 3% in Italia contro il 14% dell’area euro. Confindustria, alla sua assemblea nazionale di maggio, ha ricordato che, nell’industria manifatturiera, tra l’avvio dell’euro e il 2007, il costo del lavoro per unità di prodotto è cresciuto in Italia del 19%, mentre si è ridotto del 7,5% in Francia e del 9,8% in Germania. Abbiamo ceduto ai tedeschi ben 32 punti di competitività. Le ragioni di questa bassa produttività sono molteplici. Ma una strada per uscirne ci sarebbe, a volerla percorrere. Cioè cambiando la testa.

Dal 2001 in avanti con la legge Treu, abbiamo scelto di far crescere l’occupazione ma le nuove tipologie di lavoro flessibile sono classicamente lavori a bassa produttività. In più, il 70% del Pil è fatto di settore pubblico e di servizi assai poco o per nulla esposti alla concorrenza, dunque la produttività ristagna. L’euro, quando si apprezza, colpisce più energicamente i prodotti italiani che, rispetto ai tedeschi, sono mediamente più in basso nella scala del valore aggiunto.

Ma se la colpa non è dei lavoratori italiani, c’è un modo per unire le loro tasche all’obiettivo di far aumentare la produttività. E’ per esempio un importante passo avanti, l’accordo del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi con l’Agenzia delle Entrate, che ammette alla tassazione agevolata del 10% l’intera quota del salario da produttività e non solo le ristrette “voci variabili” della prima interpretazione della norma. E’ una conferma dell’accordo sui nuovi assetti contrattuali, raggiunto nel febbraio del 2009 tra imprese e sindacati. Il “salario decentrato”, aggiuntivo rispetto a quanto definito per qualifica e inquadramento nei contratti nazionali, è nelle intenzioni dei firmatari – tutti, tranne la Cgil – come un grande motore finalmente comune, tra aziende e dipendenti.

Mentre infatti ha ancora un senso che la parte normativa e sui diritti sia estesa per contratto nazionale alla generalità di un intero settore, solo trattando azienda per azienda è possibile definire come utilizzare al meglio gli impianti rispondendo all’elasticità della domanda, modulando orari, riposi, straordinari e turni. Unendo due obiettivi: consentire certo alle imprese migliori margini, ma insieme alzare il reddito disponibile dei lavoratori. Il governo aveva già disposto la detassazione, che ora è ulteriormente estesa. Parlando dell’intesa raggiunta a Pomigliano d’Arco, significa per gli operai Fiat, sulle 120 ore di straordinario pattuite invece delle 40 standard da contratto, trovarsi nelle tasche 510 euro netti in più, rispetto alla stesso lordo di circa 3mila euro dovuto per le ore di lavoro aggiuntive annuali.

Non è poco. Dovrebbe aiutare a rasserenare l’atmosfera in tutta la vicenda Fiat, ad estendere l’intesa di Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo. E’ paradossale che le maestranze americane di Chrysler si siano strette festanti insieme al presidente Obama intorno a Sergio Marchionne, grate del rilancio aziendale e convinte anche della necessità che i nuovi assunti abbiano accettato livelli retributivi inferiori ai seniores. Mentre da noi si scatena la guerra, quando la stessa azienda non propone qui salari differenziati, ma solo che a fronte di investimenti per 20 miliardi sia innanzitutto possibile ristabilire la legalità. E cioè abbattere assenteismo e doppi lavori in nero, realizzare esattamente quel che già stabiliva l’accordo interconfederale del 2009: che le deroghe contrattuali, per azienda e stabilimento, sarebbero state finalmente possibili, trattandole col sindacato, anche per rispondere alla necessità di migliorare gli obiettivi produttivi.

E’ comprensibile, nel nostro Paese molto diverso dai mercati anglosassoni, che la rivoluzione che ha preso le mosse coi nuovi accordi e che inizia nel caso Fiat generi allarme e preoccupazione, in quelle organizzazioni da decenni strutturate intorno al rito-mito del contratto nazionale. E’ ovvio che, dopo la Fiat, altre aziende seguiranno in Italia il suo esempio. E che ciò chieda sia al sindacato, sia alle rappresentanze d’impresa, una maggior focalizzazione sul livello territoriale e aziendale e cioè su cose concrete, non più sugli aspetti politico-simbolici del CCNL. Ma è l’intero mondo del lavoro coi suoi cambiamenti a esigerlo.

Non solo per la globalizzazione, che non è la gara tra chi guadagna meno come vorrebbero dipingerla i suoi nemici, ma è al contrario la gara a chi vi si afferma meglio per soddisfare miliardi di non più poveri in nome della qualità e dell’innovazione, che consentono salari migliori nei Paesi più avanzati. Ma anche perché innanzitutto nel nostro Paese il lavoro non è più quello descritto e cristallizzato nella rigidità dello Statuto dei lavoratori, che fu conquista ma risale a 40 anni fa. Ed è in questa direzione che si è mossa l’azione  del ministro Sacconi dacché è in carica e con il Piano triennale del lavoro appena annunciato, di cui costituirà parte attuativa fondamentale lo Statuto dei lavori di Marco Biagi, che verrà purtroppo per l’ennesima violta ucciso in culla se la legislatura cade. Un mondo del lavoro fondato sulle esigenze delle persone e sulla loro occupabilità a cominciare dai nostri punti deboli e cioè donne e giovani, sulla maggior sicurezza del lavoro e sull’emersione del nero attraverso il potenziamento dei controlli ispettivi, ma anche sulla liberazione del lavoro attraverso una minor pressione fiscale, una formazione ricorrente del capitale umano, e nuovi istituti di welfare fondati non sulle sole esauste casse dello Stato ma sulla sussidiarietà e sull’accordo bilaterale tra sindacati e aziende.

Sempre che la legislatura duri. La politica si metta una mano sulla coscienza. Se crederà che gli italiani siano disposti a fare sconti, e cioè ad assistere a mesi o magari anni di scontri politici trascurando l’agenda concreta di ciò che serve al Paese mentre il mondo corre e cambia, senza poi far pagare un duro prezzo a chi ne sarà responsabile, secondo me la politica si illude. Bisoga essere pronti, in quel caso, a non fare sconti a chi si comporta in mnaiera così cialtronesca sia con le promesse leettorali che ha fatto, sia verso i guai che pesano sul Paese.

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5 Responses

  1. eonia

    L’estinzione dei benefici fiscali di matrice Bush sarebbe opportuno che finissero a scadenza naturale senza troppi calcoli della loro incidenza sul PIL. E’ un atto dovuto ad una nazione che si dirige verso la povertà di milioni di cittadini e famiglie senza particolari attenzioni né dal Congresso, né dall’amministrazione Obama.
    La crisi di moralità in cui versa la nazione è così grave da chiedere vendetta in qualsiasi suo aspetto.
    Sia la Morgan che la Goldman hanno ben dimostrato il perché di quest’ultimo autogol sulla ripresa economica nonostante il denaro impiegato sia stato enorme (incidenza sul debito del 20%), con ripercussioni catastrofiche nel prossimo futuro. Se la delocalizzazione della grande industria multinazionale radicata in quel paese si può permettere le pratiche di outsourcing altrettanto non è permesso alla piccola azienda che crea occupazione permanente.
    Quale politico sin ora si è occupato di questo segmento?. Si è creato qualche organismo per erogare credito alla media e piccola impresa? Ci sono stati degli sgravi fiscali per detto segmento? Al contrario se le aziende sono ricorse al capitolo 11, le piccole banche sono fallite con danni immensi per il tessuto sociale.
    D’altra parte perché nel bel mezzo di una crisi si deve occupare la banca a promuovere le star up e non organismi governativi? Tanto l a creazione di organismi ad hoc da parte dell’attuale amministrazione è diventato un gioco di prestigio.
    Certamente la svolta della Comunità Europea relativa al rigore dei bilanci nazionali, non solo ha sortito l’effetto ritardo all’economia globale ma ha lasciato il partner trentennale solo sul versante spesa sconsiderata. Gli americani la chiamano “spesa per una barca o spesa per un aereo”, tanti sono i beneficiari se non sono circoscritti proprio al perimetro governativo.
    Se la Grecia è stato il primo paese a collassare, sicuramente è anche il primo a mostrare come uno Stato, se vuole, può controllare la corruzione ed eventualmente farsi restituire il mal tolto scardinandola.
    Non esiste alcun assioma che dopo una crisi deve seguire una ripresa. Le strade possono essere diverse.
    L’attuale deflazione è solo un esempio.
    .

  2. eonia

    Noto solo ora di aver commentato sull’argomento sbagliato.
    Mi scuso e saluto cordialmente.

  3. merlino

    vabbè capisco tutto e tutti, ma come si fa a notare la pagliuzza e non vedere la trave?
    spiego: l aumento annuo medio di produttivita del 1,2% moltiplicato per 19 anni fa + 38% (i valori sono cumulati).
    sembra poco aumentare la produttivita del 38% ?

    la pagliuzza di cui si scrive: -2,7% nel periodo 2007-2009 (il 38% contiene gia questa decremento, poiche il +1,2% è un valore medio e ne tiene ovviamente conto).

    sempre che la matematica non sia un opinione….

  4. LUIGI ZOPPOLI

    @Merlino non è poco 38% ma se applichiamo lo stesso criterio alla germania ed alla Francia o ad altri ed otteniamo + 90% ad esempio, si ha ugualmente la dimensione e la gravità del problema: perdita di competitività e csto per unità di prodotto.

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