18
Set
2020

Barbano chiama; Birgitte, rispondi?

Il libro di Alessandro Barbano “La visione. Una proposta politica per cambiare l’Italia” (Mondadori, 2020) poteva essere, forse, l’ennesimo manifesto per l’unità del fantomatico e famigerato “terzo polo” a far polvere nella libreria, oppure il solito pamphlet del giornalista tanto, troppo illuminato, da incendiare i suoi dieci lettori under 40 alla frase “riformismo liberale craxiano”, perché loro non sanno proprio cos’è. Invece no, anche grazie a Netflix e alla produzione della meravigliosa seria Borgen.

Proprio così: perché, in fondo, tutto il libro è l’inconsapevole ma serratissimo corteggiamento di Birgitte Nyborg, l’eroina, inventata, dei moderati danesi. Che ha un programma preciso, una visione, appunto, chiara del futuro del suo paese, e stipula accordi, patti e alleanze di conseguenza. Birgitte è per il libero mercato, per l’innovazione e lo sviluppo, per la solidarietà globale e per il rispetto e la protezione dell’ambiente, per leggi che siano umane nei confronti degli immigrati e anche per una immigrazione che sia sostenibile. Birgitte è onesta, trasparente, scrive sulla sua agenda on line, visibile a tutti, i suoi appuntamenti e incontri, nel suo staff non vuol neanche vedere gente che abbia il pass per far parcheggiare tipo la zia con l’alluce valgo, tanto per intenderci. Birgitte è una visionaria, ma non una pazza visionaria, tattica quanto deve servire, stratega sempre. Birgitte ha la “delega” in tasca e non se la dimentica mai: cioè, per usare le parole di Barbano, la rappresentanza legittimata dal riconoscimento della responsabilità, autonomia decisionale, ma anche capacità di ascolto e confronto, partecipazione e feedback della base sociale. E questo deriva dal merito, dalla sua bravura, dalle sue capacità, perché come dice l’autore “un paese senza élite meritocratiche è appannaggio dei furbi e dei mediocri al potere”.

La sintesi politica di cui parla Barbano, che si specchia così bene nelle vicende dei moderati danesi della fiction, vuole accogliere e rinsaldare tra loro le componenti liberali, moderate, cattoliche e riformiste, attrezzi usati ma validi della nostra storia politica, e viene illustrata con significativi riferimenti culturali e storici. Ora si tratta di usare questi strumenti tutti insieme.

Il bisogno di una nuova politica contrapposta ai sovranismi e statalismi che si fanno sempre più largo deriva dalla necessità di dar voce a quelli che non hanno paura di dire la verità, anche se scomoda e amara, e di parlare con i numeri, che non hanno paura di dire che tutto ha un prezzo, che c’è un prezzo da pagare altissimo se non affronteremo con responsabilità e prudenza i temi ambientali, che sanno capire che se ti dicono che il problema della giustizia in Italia riguarda il 9 per cento dei processi colpiti da prescrizioni, ti stanno raccontando una gigantesca buffonata.

E’ la politica contraria al “piuttosto di niente, meglio piuttosto”, perché tra un piuttosto oggi e uno domani, abbiamo sfondato la soglia del tollerabile: più morti che nati, più gente che non lavora di quella che lavora, più privilegi che doveri, più rendite che guadagni. Già, si dirà, ma l’Italia e gli italiani si sanno arrangiare, hanno mille risorse, se la cavano sempre, che è anche vero. Ma per usare una metafora che descrive bene la situazione, è come quanto avviene oggi, e cioè che il personale della scuola si rifiuta, sulla carta, di misurare la temperatura agli studenti, poi, in realtà, in molte scuole, nelle riunione indette, ti hanno spiegato che la febbre loro la misurano lo stesso. E allora gli innovatori della politica sono quelli lì che misurano la febbre lo stesso, sono il mucchio di persone che non ha niente a che fare con le cartacce sputate fuori da tutte le burocrazie, per prima della scuola, di cui tutti parlano ma che, da anni, vincono su tutto. Sono i Mario Barbuto della situazione che provano con serietà, da tanti anni ormai, a ripensare l’organizzazione della giustizia. Ma che se ti sognavi di invitarlo a parlare in un qualsiasi tribunale ti veniva detto: “Meglio di no, fa fare brutta figura al nostro presidente”.

I “visionari” di Barbano non hanno paura delle “brutte figure” perché vuol dire che hanno tanto da imparare, che c’è molto da fare, e che c’è qualcuno migliore di loro che ha tanto da dare e da insegnare, perché leadership e competenze passano, nonostante piaccia poco, da bagni enormi ma davvero giganteschi di umiltà, parola del tutto scomparsa dal gergo ma, soprattutto, dalla mente della classe dirigente del nostro paese, se pensiamo che il nostro ministro egli esteri, benemerito nessuno da curriculum, se ne uscì con la frase: “Draghi mi ha fatto una buona impressione”. Come se davanti a Michael Jordan, in una sfida ai tiri da tre, gli dicessi: “Però, non tira male”. La nuova politica ha bisogno di teste pensanti e critiche e l’autore, nella sua lucida narrazione, non perde mai la bussola, potendo così aiutare il lettore insoddisfatto dell’attuale proposta politica a capire cosa servirebbe e cosa si potrebbe fare, attrezzati di tanta, infinita pazienza e coraggio.

Alla fine, o forse già dall’inizio, in realtà, il libro “La visione” è sì una proposta per cambiare l’Italia ma anche per cambiarci un po’ tutti, per cambiare un po’ le nostre teste, in meglio.

P.S. Forse, ma credo volutamente, al libro manca un capitolo dedicato specificatamente all’economia, anche se l’autore ne parla in vari passaggi del testo specie dove stigmatizza il risorgere dello Stato imprenditore, voluto dalle attuali forze di governo. Credo che idealmente si potrebbero aggiungere queste due paginette scritte quasi cento anni fa da un politico che sicuramente aveva una grande visione.

“Rompere le catene” (di Luigi Einaudi, Corriere della sera, 29 giungo 1922)

Lo sciopero dei metallurgici ha cause particolari sue proprie che toccano punti di contesa tra industriali ed operai dei singoli stabilimenti e di regioni intere. Esistenti od allegate sperequazioni tra regione e regione hanno inacerbito il problema sicché la soluzione che sembrava possibile per una regione è divenuta difficile per la solidarietà degli operai delle regioni dove i salari sono detti meno favorevoli. Ma non è di questa solidarietà né dei problemi tecnici che intendiamo parlare. I quali devono essere discussi dai rappresentanti delle due parti. C’è un’altra solidarietà la quale ha importanza collettiva la quale influisce sulla situazione dell’industria generale ed esercita ripercussioni profonde sui rapporti tra capitale e lavoro.

Invano abbiamo pubblicato da anni e ripetutamente moniti contro l’edificio di solidarietà impure il quale veniva elevandosi nel campo dell’industria siderurgica metallurgica e meccanica e si ramificava da un lato verso lo stato e dall’altro verso le banche. Quando noi diciamo che l’industria pesante vive artificialmente non vogliamo accusarla di essere “innaturale” all’Italia, non esistono industrie che siano per definizione naturali ad un paese. Sarebbe antieconomico pretendere che un paese lavori solo le materie prime coltivate sui suoi terreni od estratte dal suo sottosuolo.

L’industria del cotone è divenuta naturalissima in Inghilterra anche se una pianta di cotone non vi abbia la minima possibilità di crescere. Così anche l’industria del ferro o dell’acciaio od alcune di esse possono trovare in Italia un meraviglioso campo di sviluppo. Il lavoro, l’ingegno, le abilità spontanea ed acquisite degli italiani hanno fatto e possono fare cose mirabili in questo campo. Non bisogna mettere alcun freno alla genialità italiana ove sia corroborata dalla pazienza, dal tecnicismo, dalla ostinazione nel tentare e nel riprovare. Ma parchè le qualità naturali del lavoro e della capacità organizzatrice ed inventiva degli italiani possano dare i loro frutti nel campo dell’industria pesante uopo è che l’intelligenza nostra non sia vincolata, jugulata e martoriata da impedimenti che noi stessi vogliamo creare e moltiplicare. Gli industriali meccanici i quali sarebbero capaci di produrre auto, macchine da scrivere, telai meccanici, caldaie, macchine agricole;i cantieri navali i quali potrebbero lanciare navi da passeggeri splendide e gareggiare per i mari del mondo con le navi straniere, devono potersi procurare tutto ciò di cui essi hanno bisogno per fabbricare costruire, sui mercati mondiali dove il ferro, l’acciaio i prodotti semilavorati sono più a buon mercato. Comprare le materie prime al minimo prezzo senza ritardi senza impedimenti senza vincoli ecco la condizione prima e principe senza di cui non si può sperare che le industrie elaboratrici dei prodotti più splendidi della meccanica possano diventare naturali all’Italia.

Ma noi ci siamo vietati la consecuzione di un così alto scopo, ed abbiamo fatto diventare artificiale quello che poteva essere naturale e prospero. Gli speculatori hanno avuto il sopravvento sugli uomini laboriosi e i lavoratori ed hanno tratto l’industria pesante nella spire della politica. È parso ai dirigenti finanziari che fosse più facile guadagnare milioni assicurandosi il minerale dell’isola d’Elba di proprietà statale a prezzi di favore creando una industria di alti forni intesa a consumare ad alta pressione questa riserva, chiedendo allo Stato prezzi di favore per tutte le sue forniture, impedendo alle materie prime estere di venire in Italia se non attraverso dazi colossali, vincolando i cantieri a produttori nazionali ed obbligandoli così a chiedere sussidi allo Stato a compenso degli incaricamenti così sopportati. E si potrebbe continuare (…)

Ma una industria che vive di dazi e di favori non può essere stabile e prospera. Essa ha periodi di straordinari guadagni e prosperità quando lo Stato può spendere e negli altri momenti si affloscia e precipita in crisi prolungate. I primi ad esserne nello stesso tempo corrotti e danneggiati sono gli operai. Corrotti perché i lauti guadagni consentono talvolta di largheggiare nelle paghe senza badare all’avvenire e danneggiati perché la disoccupazione infierisce nei periodi di magra. Ne viene altresì corrotta la vita pubblica poiché i rappresentanti degli interessi industriali da un lato e delle maestranza dall’altro sono tratti ad elemosinare commesse, sussidi, dazi e favori dallo Stato, e si assiste allo spettacolo di platoniche proteste socialiste contro il protezionismo capitalistico e di tacite alleanze per veder prolungare il sistema di privilegi di cui l’industria malauguratamente è stata tratta a vivere. (…)

Invece di clienti buoni viventi di vita propria, le banche si trovano di fronte a colossali organismi la cui vita dipende da una legge o da una politica di dispendio del tesoro,o dalle approvazioni di enormi tariffe doganali. Non è possibile rompere il circolo incantato? Non abbiamo nessuna pregiudiziale politica da innalzare contro chi voglia dare il primo colpo di piccone all’edificio traballante. I capi operai sono capaci di persuadere che la disoccupazione non si cura con rimedi artificiosi, con nuovi sussidi o con nuovi inasprimenti doganali? E non ci lagneremo che siano essi a voler instaurare un regime di stabilità fondato sullo sfruttamento delle nostre qualità naturali di tecnica e di abilità. E studieremo con essi intorno ai metodi migliori per evitare che la crisi di trapasso si verifichi violentemente con ripercussioni dannose sulle maestranze. Ma una via di uscita si impone. Il bilancio dello Stato è impotente a reggere il peso immane e crescente che lo grava sempre più per sorreggere, invano, una situazione artificiale, la quale non trova in se stessa le ragioni della vita”.

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