6
Ago
2013

Banche. L’alternativa alla nazionalizzazione

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Davide Grignani.

Da alcune settimane noto crescere con vigore la “falange dei nazionalizzatori” ovvero di quegli stimati economisti, banchieri ed operatori economici favorevoli all’iniezione di capitali pubblici nel capitale delle banche italiane.
Dopo le note di Lorenzo Bini Smaghi sulla opportunita’ di iniettare alcuni miliardi di euro dello Stato nel capitale degli istituti bancari più bisognosi, la lettera di Antonio Foglia – che da anni insiste su una maggiore capitalizzazione di tutte le banche – ho letto con interesse il recente articolo di Pietro Alessandrini e Michele Fratianni che stimano un possibile intervento pubblico tramite CDP tra i 17 e i 18 miliardi di “buffer stock” di nuovo capitale bancario.
Mi sia consentito  intervenire in contrapposizione a queste posizioni che evocano in “funzione anticiclica” l’intervento pubblico a sostegno di banche in temporanea difficolta’ nell’assunto che queste non siano in grado di attrarre i necessari capitali privati italiani ed esteri dato il loro eccessivo livello di rischio.

Il rischio, quello personale, in questo caso e’ quello usuale di essere tacciati di eccessivo liberismo. La realta’ dei fatti puo’ tuttavia presentare una diversa e legittima chiave di lettura: le performance delle banche italiane, per la struttura del loro attivo, pressoche’ totalmente esposto al credito  alle  imprese, ai mutui immobiliari, al credito al consumo e  – last but not least – all’investimento in titoli emessi dalla Repubblica, hanno sempre seguito in modo molto correlato l’andamento dell’economia reale del nostro paese (come potrebbe essere diversamente in un paese che intermedia attraverso il canale bancario più’ dell’85% del PIL?).

Come giustamente osservano Alessandrini e Fratianni, le banche italiane hanno quindi  “svolto un ruolo di spugna della crisi”. Lo hanno svolto piuttosto bene, visto che non sono fallite e non hanno assorbito capitale pubblico come in quasi tutti i maggiori paesi industrializzati nostri concorrenti; hanno continuato ad operare pur in una situazione di gravissima crisi (trascuro le solite sottolineature sui noti casi di “mala gestio”); sono riuscite a portare in porto rilevanti aumenti di capitale a condizioni di mercato per oltre 30 miliardi di euro (alcuni, ma qui la memoria e’ sempre breve, molto sofferti) chiedendo agli azionisti, che avevano precedentemente incassato dividendi importanti, di “riscucire” gran parte di questi proventi o di diluirsi a livelli pesantissimi, in alcuni casi sino allo propria totale cancellazione dal libro soci. In tutti questi casi, anche i più difficili, esse sono sempre riuscite a portare in porto le proprie operazioni di ricapitalizzazione riconoscendo al mercato tassi coerenti al loro effettivo rischio.
Tali operazioni sono state condotte mentre crescevano contemporaneamente: a) il supporto creditizio complessivo all’economia (ciò è avvenuto sino alla fine del 2011) nonostante la strutturale grave assenza di capitale di rischio imprenditoriale, 2) le sofferenze bancarie e parabancarie, generate sia dal credito alle PMI più fragili, orientate principalmente al mercato interno in picchiata, sia dal credito al consumo, falcidiato dalla perdita di occupazione e dal diminuito reddito disponibile delle famiglie, 3) la richiesta del Tesoro di sottoscrivere sempre più titoli pubblici, data l’incapacita’ strutturale della PA di diminuire le spese pubbliche e i costi  dell’apparato politico  e 4) la percezione negativa del rischio sovrano da parte degli investitori esteri, cui occorreva trovare rapidamente un “sostituto” domestico.
Morale: il combinato disposto di questo immane sforzo ha prodotto inevitabilmente cio’ che oggi appare sotto gli occhi di tutti: a fronte di un COE (Cost Of Equity) di circa 10-11 % annuo, costruito da un iniquo “Rischio Italia” oggi tra il 4 e il 5% e da un rischio di settore di almeno il 5-6%, il ROE (Return On Equity) del sistema bancario Italiano naviga su livelli medi del 2 % , con picchi di eccellenza intorno al 4 %. Il mercato ci dice una cosa semplicissima: a queste condizioni di stress le banche italiane hanno un “business model” non sostenibile.

E’ questa una novità? Nient’affatto: per anni ed anni le banche italiane, in contesti economici anche molto più favorevoli, non sono state in grado di ripagare positivamente il loro capitale di rischio. La ragione era anche in questo caso molto semplice: esse erano in realta’ “pubbliche” o, meglio, asservite ad una gestione politica del credito, basata su scambi e favori clientelari che poco aveva a che fare col mercato e le sue regole. Qualcuno chiamava allora alcune di esse “istituti di interesse nazionale”, oggi riecheggia invece nei vari seminari ed incontri il termine anglosassone di “public utilities”.

Ritengo esista una via alternativa alla nazionalizzazione: una strada certamente stretta, difficile ed in salita, ma sicuramente meritoria e profittevole per tutto il sistema italiano in una logica di efficiente e trasparente supporto alle nostre banche. La Banca d’Italia, l’EBA, la BCE possono senz’altro aiutare moltissimo in tal senso esorcizzando la facile scorciatoia delle “operazioni di Stato” che il nostro paese non avrebbe e non ha la possibilita’ di permettersi, anche quando presentate nella loro forma più “conveniente” in cui – spesso per “captatio benevolentiae” della politica – si sono utilizzati nei vari paesi schemi e soluzioni in cui l’aiuto di Stato è stato di fatto strutturato e presentato alla collettività come un buon affare per i contribuenti.
Di fronte a noi esiste la possibilita’ concreta di chiedere agli azionisti delle banche italiane di farsi promotori attivi di nuove aggregazioni bancarie più efficienti e solide, di modelli di governance  efficaci, di business plan sostenibili perché imperniati su piattaforme di costi, prodotti e distribuzione più snelli, realizzabili attraverso fusioni  ed acquisizioni dove si realizzino quelle economie di scala e  quelle diversificazioni di rischio in assenza di cui oggi molte piccoli istituti non risultano più “economically viable”, incapaci ed impossibilitati come sono a svolgere la loro naturale missione di intermediari tra il risparmio da una parte ed investimenti e consumi dall’altra.

In fondo, tutti dossier aperti sui tavoli sin dagli anni buoni. Oggi ci troviamo in una situazione particolarissima, con una vera e propria inondazione di liquidita’ a livello mondiale, liquidita’ che cerca opportunità di investimento anche di medio termine a tassi di interesse che siano più interessanti rispetto al Bund o ai Federal Bonds decennali: un’occasione storica imperdibile per attrarre capitali dai mercati internazionali che, a condizioni storicamente molto convenienti in termini assoluti – anche se penalizzate dal premio al rischio del nostro enorme debito pubblico  – sono assolutamente ancora attraibili. Ad un’unica condizione: quella di presentare  regole del gioco chiare  e progetti industriali solidi e credibili.
Perche’ non seguire quindi questa strada, quella  che ci indica il mercato, preferendola al trasferimento di ulteriori risorse pubbliche finanziate, queste si a carissimo prezzo causa l’iniquo “spread” rispetto al costo del debito tedesco,  da esangui contribuenti attraverso meccanismi politico-amministrativi non di mercato?
Se la risposta fosse, come pare spesso l essere, perche’ le banche non possono o, peggio, non devono rendere ai loro azionisti almeno quanto il costo del loro capitale, allora veramente dovremmo interrogarci ed opporci con tutte le forze ad iniettare denaro e risorse pubbliche di tutti gli italiani  in un’altra industria destinata al declino. Come potremmo giustificare alle future generazioni anche questo errore strategico?

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