13
Gen
2014

Autostrade: l’intervento che tutti chedono è ovvio, semplice e sbagliato

Se le autostrade costano “troppo”, è colpa della privatizzazione?

Si legge spesso che nel nostro paese i pedaggi autostradali sono “troppo salati” e che questo dipende dalle modalità di privatizzazione nel 1999. Si invocano, così, interventi sempre più muscolari del governo. Lo fa oggi, sul Corriere della sera, Sergio Rizzo, giornalista che tutti apprezziamo per il suo impegno come “cacciatore di sprechi”. Ma si tratta di una credenza molto diffusa, peraltro alimentata dai non pochi ingressi a gamba tesa dei ministri pro tempore, incluso l’attuale titolare delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, che dopo essersi vantato di aver contributo a contenere i rincari, oggi ha annunciato “un primo segnale” nei prossimi giorni.

Tutta colpa della privatizzazione, insomma? Ragion per cui dovremmo riavvolgere il nastro e tornare alle gestioni pubbliche di una volta?

Come in tutte le letture semplicistiche, anche in questa c’è un grano di verità, che però si dilata a dismisura e viene utilizzato per invocare pezze ben peggiori del buco.

Il grano di verità va cercato nel fatto che, all’epoca della privatizzazione, la scelta fu quella di “fare cassa” massimizzando il gettito, ossia concedendo condizioni tariffarie e disegnando le aste in modo tale da ottenere tanti soldi, maledetti e subito. C’è poco da dire sul punto: come ha messo in evidenza Giorgio Ragazzi – critico feroce della privatizzazione autostradale – si scelse così di assegnare concessioni di durata eccessiva, probabilmente sovrastimando la Rab (il valore degli asset remunerati da cui deriva l’entità della tariffa) e concedendo formule tariffarie ambigue e tali da lasciare ampia discrezionalità, che in più fasi si è declinata a favore dei concessionari.

Fermarsi qui, però, sarebbe parziale e fuorviante. Bisogna aggiungere almeno altri tre elementi al quadro. Primo: come correttamente sottolinea Ragazzi, a fronte di una concessione di dimensioni probabilmente troppo vaste e certamente non giustificata dalle relativamente deboli economie di scala (quella assegnata ad Autostrade per l’Italia, appunto), furono mantenute una pletora di altre concessioni di piccole o piccolissime dimensioni. Qui, dove le economie di scala potrebbero esserci, il criterio guida fu quello di tutelare le partecipazioni pubbliche in mano a comuni, province e regioni. Secondo: mentre nel caso di Autostrade la formula tariffaria si sta gradualmente evolvendo verso forme più “standardizzate”, nelle quali aumenti (o riduzioni) del pedaggio sono calcolati in modo sostanzialmente automatico una volta noti gli investimenti autorizzati, in altri casi si è osservato un proliferare di formule tariffarie. Ricondurre l’intero universo tariffario alle formule per Aspi aiuterebbe, se non a contenere i pedaggi, quanto meno ad aumentarne la trasparenza. Terzo, è vero che in Italia i pedaggi sono relativamente alti, ma questo fattore sconta proprio l’incertezza regolatoria che grava sul settore. E’ del tutto evidente – come viene spiegato in questo rapporto IBL – che, a fronte di investimenti ad alta intensità di capitale e con ritorni dilazionati nel tempo, il rischio di cambiamenti repentini delle regole si traduce in un aumento della redditività richiesta. Inoltre, con tutti i suoi difetti, la gestione prevalentemente privata ha quanto meno fatto ordine dal punto di vista dell’effettiva messa in cantiere degli investimenti programmati: l’evidenza, non solo italiana, mostra che gli investimenti pubblici tendono a sforare budget e tempi in modo assai più clamoroso di quelli privati. Nel paese delle bustarelle e delle autorizzazioni infinite, la (relativa) certezza di tempi e costi non è beneficio da poco. L’ennesima spolverata di populismo potrebbe forse mettere sotto pressione i margini dei gestori autostradali, ma spingerebbe verso l’alto la percezione del rischio paese, con risultati negativi sotto ogni altro punto di vista.

Nel suo articolo di oggi, tuttavia, Rizzo tocca un punto corretto: la chiave di volta per sistemare le cose è garantire piena funzionalità all’Autorità dei trasporti. Dopo una gestazione lunga e accidentata, il nuovo regolatore è stato finalmente messo in piedi, seppure sia ancora nelle fasi iniziali (la costituzione e la selezione del personale). Inoltre la scelta di fissare la sede principale a Torino, anziché a Roma, peraltro caldeggiata dall’IBL, aumenta la probabilità che l’indipendenza venga effettivamente esercitata, tanto verso i soggetti regolati quanto verso l’esecutivo. L’Autorità non dovrebbe tanto mettere in discussione le concessioni esistenti – che, alla stregua di contratti, vincolano il paese verso le controparti – quanto esercitare una forte moral suasion per un loro graduale rientro all’interno dei confini della ragionevolezza, e soprattutto impostare le future gare ai principi di trasparenza, pro-concorrenzialità e razionalità regolatoria che oggi mancano. Questo implica redigere bandi e disciplinari tali da attirare il maggior numero di concorrenti, definire con ragionevolezza le dimensioni dei singoli tratti in concessione (consentendo di sfruttare il potenziale informativo della yardstick competition) e tarando in modo adeguato la durata delle concessioni.

Come in molti altri casi, anche al problema delle autostrade esiste una soluzione complessa ma, nel lungo termine, pagante. Oppure un’altra ovvia, semplice e sbagliata.

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5 Responses

  1. Piero

    soliti discorsi teorici.. basta un pò di memoria storica : Alitalia viene salvata da Capitani Coraggiosi, Silvio mantiene promessa elettorale.. tra i Coraggiosi spiccano non solo il Riva (che ottiene la concessione di inquinare) ma pure Autostrade.. che nel giro di pochi mesi si vede rinnovata la concessione sino al 2038 se non ricordo male.. e con clausole capestro x lo stato cioè noi.. pochi mesi dopo il presidente Pietro Gros, NELLO STESSO GIORNO, rilascia 2 dichiarazioni : prima diche che l’unico motivo x cui erano entrari in Alitalia era che gli avevano promesso grossi vantaggi sul business autostrade.. poche ore dopo si accorge dell’auotgol e ritratta sè stesso… il problema non è nè il pubblico nè il privato.. il problema è che siamo il paese delle banane..
    e come dice quel pazzo psicologo di Andreoli, con ciglia da Frankistein : noi italiani non abbiamo il diritto di criticare la classe dirigente, politica ed imprenditoriale, perchè in scala siamo quasi tutti come loro.. variano solo le quantità..

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