Autorità per l’energia. Non hai vinto, ritenta
La bomba è scoppiata a Palazzo Chigi questa mattina. Antonio Catricalà, presidente non-più-uscente dell’Antitrust, ha rinunciato a prendere la guida dell’Autorità per l’energia. Nel pomeriggio, lo stesso Catricalà ha confermato la decisione, giustificandola così:
Ho scritto al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per comunicargli la mia decisione di rimanere all’Antitrust. Sono un uomo delle istituzioni e non voglio consentire che l’Autorità che presiedo e l’Autorità dell’energia siano paralizzate da veti incrociati che pur non riguardano la mia persona.
Cosa c’è dietro, e cosa abbiamo davanti?
La scelta di Catricalà è dettata soprattutto da un giusto senso dell’opportunità. La cinquina Catricalà-Biancardi-Bortoni-Carbone-Termine, uscita apparentemente blindata da Palazzo Chigi, è stata immediatamente investita da una serie di critiche più o meno nobili. La parte nobile, che si è manifestata sotto forma di dolorosi mal di pancia nel Pd, riguarda il fatto che, secondo molti osservatori, almeno alcuni dei componenti non avevano quelle caratteristiche di competenza richieste dal mercato, dal buonsenso e dalla legge istitutiva dell’Autorità. La parte meno nobile riguarda soprattutto quelli che si sono sentiti esclusi. Per chiamare le cose col loro nome, il collegio era figlio di un accordo tra il Pdl, la Lega e la maggioranza interna del Pd, mentre lasciava a bocca asciutta Udc, Idv e Fli. Di questi, a quanto si mormora nei corridoi, almeno l’Udc avrebbe aperto una sua trattativa parallela per “compensare” la mancata indicazione di un componente dell’Autorità con l’inserimento di un suo uomo ai vertici della struttura. Il governo, pur non avendone teoricamente bisogno, avrebbe accettato questa trattativa per evitare che i voti degli esclusi e degli incazzati si sommassero, mettendo a repentaglio l’approvazione parlamentare del nuovo collegio (necessari i 2/3 dei voti nelle commissioni competenti).
Contemporaneamente, ulteriori mal di pancia si sarebbero manifestati sul tavolo parallelo dell’Antitrust. L’abbandono di Catricalà ha fatto emergere Antonio Pilati in qualità di reggente (è l’attuale membro anziano). Il nome di Pilati è entrato immediatamente nel mirino di Fli e del Pd in quanto considerato “troppo vicino a Berlusconi”. Confesso un piccolo conflitto di interessi: con Pilati ho buoni rapporti e di Pilati ho stima. Ma non voglio, qui, né difenderlo né attaccarlo. Mi limito a osservare che fa abbastanza ridere prendersela con lui alla luce (a) di una tornata di nomine in cui tutti sono vicini a, o amici di, qualcuno; (b) in ogni caso, la reggenza di Pilati era per definizione temporanea, in quanto i presidenti delle camere avrebbero potuto e dovuto indicare un nuovo presidente. In tutta sincerità, insomma, trovo che questa sia la più pretestuosa delle critiche.
Terzo, lo stesso Catricalà non è stato esente da critiche. Non tanto per la sua persona, che ha riscosso consensi virtualmente unanimi (se sinceri o ruffiani, non so dirlo). Quanto per il precedente che la sua nomina avrebbe creato, e che è stato immediatamente rilevato, tra gli altri, da Orazio Carabini, che ha scritto:
La “professionalizzazione” del mestiere di componente di authority (i casi sono già numerosi e sono destinati a moltiplicarsi) non è un bene perché, almeno in teoria, spinge chi ha ambizioni di continuare la sua carriera nel “settore” a scendere a compromessi con la politica e con i vigilati, a non dare troppo fastidio, ad accettare scambi pericolosi.
Di per sé, questa debolezza oggettiva di Catricalà non sarebbe stata sufficiente a far tremare l’Autorità. Ma, messa nel combinato disposto con le debolezze tecniche di alcuni membri del collegio e la generale caratterizzazione del tutto come un do-ut-des di nomine, la situazione si è fatta insostenibile. Intelligentemente, Catricalà ha preferito un dignitoso passo indietro piuttosto che il rischio della bocciatura o anche solo di un’approvazione risicata.
A questo punto, che succede? Dio solo lo sa. Nel breve, si fa più urgente la risposta del Consiglio di stato in merito alla possibilità di una proroga (limitata) dell’attuale collegio. I tempi sono ormai scaduti. L’immagine più desolante è quella del deserto e dell’incapacità di trovare un accordo di alto profilo su una nomina di cui, da sette anni, tutti conoscono la scadenza. E questa è una dimostrazione di quanto sia imbarazzante e impreparato il nostro ceto politico. Di fatto sono due le possibili via d’uscita.
La prima è quella dell’inciucio: ci sono cinque poltrone, e sei sono i partiti maggiori, di cui due (Pdl e Lega) stanno nella “maggioranza”, uno (Fli) a metà strada con l’opposizione, e tre all’opposizione (Udc, Idv, Pd). E’ chiaro che in una logica spartitoria avrebbe senso lasciare a bocca asciutta Idv e uno a scelta tra Udc e Fli, e allargare l’accordo a Pdl-Lega-Pd-Udc/Fli.
La seconda è quella della responsabilità: si indichino cinque nomi che possono avere simpatie per questo o per quello, ma che sono anzitutto noti per la loro competenza tecnica sul settore. Questa è la scelta migliore per il paese e per il mercato. Pertanto, questa è la scelta che non verrà presa.
Solo un’osservazione, mi pare che al quadro manchi un tassello: il Pd – lo scrive la stessa Repubblica nell’articolo linkato – deve aver cambiato idea.
Il 18, giorno delle designazioni, pareva esserci un accordo. Se così non fosse stato il Consiglio dei ministri non le avrebbe fatte. Se anche vogliamo credere che Bersani passasse per caso dalle parti di palazzo Chigi il giorno del Consiglio, e comunque solo per parlare di rifiuti, basterebbe il fatto che dal partito non si sia levata nei giorni successivi alcuna protesta ufficiale. Eccetto appunto quella di una minoranza.
Ma quanto pesava la minoranza? Tanto da affossare l’approvazione? In X alla Camera Pdl, Lega e Pd hanno 36 deputati su un quorum di 2/3 di 30. Oltre un terzo dei democratici avrebbe potuto votare contro senza affossare la conferma. Al Senato i tre partiti hanno 20 rappresentanti contro un quorum di 16. La metà dei Pd avrebbe potuto votare contro ancora una volta senza bloccare l’approvazione.
Mi pare più verosimile che sia stato questo ripensamento del Pd, più della preoccupazione per Fli, Idv o Udc e più del timore di un’approvazione risicata (il collegio 2003 ebbe una maggioranza abbondante alla Camera ma non al Senato, e comunque una maggioranza di 2/3 non è di per sé risicata) a far vedere la malaparata a Catricalà.