Assegni di disoccupazione vs disoccupazione strutturale
E’ noto che pagare la gente per non lavorare fa passare la voglia di lavorare. Si chiama azzardo morale: le persone dovrebbero essere responsabili delle proprie azioni, altrimenti finiscono a comportarsi come le banche e i politici. D’altra parte, non tutta la disoccupazione è volontaria: alcuni non è che non lavorano perché “se ne approfittano”, ma perché non possono essere impiegati altrove.
In questo articolo discuto due questioni strettamente connesse. La prima è: stiamo osservando, negli USA, disoccupazione da “assegno” o disoccupazione strutturale? La seconda è: esiste un modo per distinguere i lavoratori che non “possono” lavorare per i problemi strutturali dell’economia (sicuramente moltissimi) e quelli che semplicemente non vogliono? Non parlerò invece dei salari minimi, perché è banale che anche questi siano causa di disoccupazione, quasi esclusivamente proprio tra i lavoratori più deboli.
In questo articolo e nei commenti a quest’altro articolo si argomenta il punto, piuttosto ovvio, che gli assegni generano disoccupazione (un’analisi dell’effettiva rilevanza degli effetti in questione è tutt’altro che ovvia: basta il 10% del vecchio stipendio di assegno per generare moral hazard, o basta prendere il 10% in meno dello stipendio per mantenere voglia di lavorare? Probabilmente una via di mezzo: bastano poche centinaia di euro per avere un effetto significativo sulla disoccupazione, ma la cosa dipende anche da fattori culturali e morali).
Il primo articolo linkato dice: le vacancies sono cresciute, ma anche la disoccupazione di lungo termine, dunque il problema è l’assegno di disoccupazione. La conclusione è prematura. Se aumentano le vacancies per le infermiere, e i disoccupati sono principalmente operai edili, la disoccupazione di lungo termine può aumentare anche all’aumentare delle vacancies. Come al solito, i dati aggregati non dicono quasi nulla sulla realtà economica: la macroeconomia non esiste.
L’articolo cita tre tipi di mestieri in cui pare ci siano molte vacancies: infermieri, professori, operai industriali. Infermieri e professori non si possono produrre in tempi brevi: se c’è domanda in eccesso dei loro servizi, le vacancies possono naturalmente rimanere a livelli elevati per anni (se l’aumento della domanda non era previsto, cioè se non c’erano professori e infermieri “semilavorati” quasi pronti per entrare sul mercato).
L’industria è più strana: di operai licenziati ce ne sono stati molti (solo nell’automotive si sono persi centinaia di migliaia di posti di lavoro), e se ci sono vacancies o è perché sono già tutti rientrati (molto probabilmente no: l’effetto aggregato sarebbe stato visibile), o perché si richiedono skills ultraspecialistici, o perché ci sono gli assegni di disoccupazione, come sostiene l’articolo. Probabilmente in questo settore l’assegno può essere una spiegazione rilevante per la persistenza della disoccupazione.
Esiste poi un problema di carattere strutturale più subdolo, che, parafrasando un paper di Peek e Rosengren, potremmo chiamare “unemployment evergreening”. Chiunque lavori nel settore immobiliare saprà che deve contrarsi e licenziare: cambiare mestiere è quindi necessario per milioni di americani. Ma il settore immobiliare è anche tenuto artificialmente in piedi, e finché le istituzioni vanno contro i fondamentali, può aver senso aspettare e vedere se si creano posti di lavoro artificiali. Queste aspettative sono pericolose perché rendono persistente la disoccupazione strutturale e rallentano la ripresa, esattamente come il “loan evergreening” a cui si riferivano Peek e Rosengren.
Esiste un meccanismo per fare lo screening tra i lavoratori che hanno problemi a cercare lavoro e lavoratori che ci marciano, in modo da minimizzare il moral hazard aiutando solo i primi? Se un muratore disoccupato vede un job opening come infermiere e non fa domanda, non è il lavoro per lui. Se vede un job opening come operaio in fabbrica e preferisce rimanere con l’assegno, il dubbio che stia approfittando della possibilità di vivere senza lavorare è invece più che lecito.
E’ probabile che molti lavoratori, come dice il secondo articolo, abbiano problemi economici reali, e poco costa dar loro un sussidio: i problemi strutturali comportano un aumento del “tasso naturale di disoccupazione”. Però distinguere chi non lavora perché non può da chi non lavora perché non vuole permetterebbe di liberare risorse per i disoccupati veri (non quelli volontari), ridurre il costo dell’assistenza, e aumentare l’offerta di lavoro nelle aziende che si stanno espandendo, accelerando la ripresa e facilitando la ristrutturazione dell’economia.
In Italia praticamente non esistono sussidi alla disoccupazione, e la disoccupazione è enorme. Credo che il legame sussidio-disoccupazione possa esistere, come dice l’articolo, ma è la minima parte del problema reale, ovvero che fatta 100 la produzione di un paese, il 10-15% (senza parlare di quelli che un lavoro ce l’hanno ma che bivaccano in ufficio) delle persone contribuisce per 0 e vive alle spalle di chi lavora.
L’obiettivo deve essere di distribuire la produttività sul 100% della forza lavoro, a quel punto il sussidio diventa un non problema.
Chissà se lavorando meno (5 ore al dì), ma tutti (per mantenere i livelli produttivi le aziende dovrebbero assumere – chiaramente tagliando drasticamente le tasse sul lavoro), il PIL varierebbe e in che direzione. E chissà come si evolverebbe un indice di valutazione della felicità come quello che stanno studiando in Inghilterra.
@j
In Italia però esistono sindacati, cosa che crea disoccupazione permanente anche in assenza di shock economici e sussidi di disoccupazione nelle regioni più povere (sud e isole) e nelle fasce di popolazione meno produttive (giovani e non-laureati). Anche negli USA ci sono l’equivalente dei sindacati, i salari minimi, e per molte persone soprattutto afroamericane può essere il motivo principale della disoccupazione.
Ora, chi ha lavori veri sicuramente è impoverito dall’esistenza di un 20% di lavoratori nullafacenti che fanno buchi nel terreno per ricoprirli, ma questo ha poco a che fare con la disoccupazione congiunturale che c’è negli USA.
Ma quelli come voi che scrivono st’aria fritta, lavorano? O ci marciano?
@Marcello
Non so, c’è poco da marciarci visto che la scrivo gratis. Però devo ammettere che la scrivo nelle pause caffé, nelle pause di lavoro. 🙂
@Marcello: L’autore (se mi consente di parlare a suo nome) lavora eccome, fa l’ingegnere con successo. E dedica tempo libero volontariamente alla diffusione delle idee liberali, tra l’altro come quasi tutti quelli che diffondono le idee liberali, visto che in Italia è all’incirca dal 1919 che essere liberali paga ben poco. O facciamo un altro lavoro o schiattiamo di fame. 😀
@ J : tutta la problematica verte sul costo totale del lavoro. Se riduci la tassazione sul lavoro ( immagino ti riferisca agli oneri sociali a carico delle imprese ) tu riduci il costo del lavoro e quindi espandi la richiesta del fattore lavoro. A quel punto perchè ridurre anche l’orario? Non ha senso , visto che se riduci l’orario e lasci inalterato lo stipendio , aumenti il costo del lavoro, aumentando la disoccupazione ,se invece riduci l’orario e lo stipendio di pari percentuale , devi convincere gente che prende 1000 euro a prenderne di meno e comunque non è detto che vada organizzativamente bene per tutte le imprese , e il saldo positivo sarebbe comunque limitato. D’altronde la riduzione dell’orario di lavoro per creare lavoro , non ha mai funzionato come politica. Il sussidio di disoccupazione , chiaramente è negativo per i lavoratori marginali , che preferiranno non lavorare e prendere il sussidio. Se lo si eroga, dovrebbe essere molto basso. Gli indici sulla felicità sono vera e propria aria fritta , parafrasando Marcello.
La teoria su cui sto cercando di ragionare sposterebbe la tassazione dal lavoro ai consumi, per cui la riduzione di orario di lavoro servirebbe a lasciare agli esseri umani il tempo per vivere (adesso la maggior parte del tempo lo si passa al lavoro, raramente per nobili cause e più spesso per far arricchire qualcun altro) – e di conseguenza anche per consumare. Chi l’ha deciso che bisogna lavorare dalle 8 alle 18? Perché non fare direttamente dalle 8 alle 24? Io vorrei che “modernità” significasse la concessione agli uomini dell’unico vero bene scarso al mondo, cioè il tempo.
Se il costo azienda di 100 investito in un lavoratore che lavora mattina e pomeriggio, si riesce a dividere in 50 + 50 su due lavoratori che lavorano metà giornata, eliminando le tasse e lasciando ai lavoratori un netto dignitoso, per l’azienda non cambia nulla (salvo il fatto che, lavorando meno, la produttività oraria pro-capite dovrebbe aumentare e si eliminerebbe la pausa pranzo); per il lavoratore è una manna perché finalmente vede un senso nel proprio tempo passato al lavoro – in quanto con i soldi che guadagna non deve solo mantenere un posto dove dormire e un mezzo per andare di nuovo al lavoro, ma può finalmente dedicare del tempo a se stesso, inoltre senza disoccupazione acquista potere negoziale per avere una paga commisurata con la competenza; per lo stato si compensa la perdita di imposte sul lavoro con la creazione di un gettito dai consumi e dalla riduzione dei costi della disoccupazione.
Va ricordato che il dovere dello stato è fare il bene comune, non guadagnare soldi. E il bene comune non è altro che la felicità dei suoi cittadini, che non sta certo dentro a una fabbrica o a un ufficio (e nemmeno dentro a un libro di economia o a parole come produttività, PIL, popolarità…).
“Va ricordato che il dovere dello stato è fare il bene comune, non guadagnare soldi. E il bene comune non è altro che la felicità dei suoi cittadini, che non sta certo dentro a una fabbrica o a un ufficio (e nemmeno dentro a un libro di economia o a parole come produttività, PIL, popolarità…).”
Proviamo a far saltare i conti e vediamo quanto diventiamo più fecili.
Scusa ma l’idea di un Ministero della Felicità (MinFel) mi suona molto orwelliana…
@Pietro Monsurrò
Dire che i sindacati siano la causa della disoccupazione è la solita vecchia teoria. Così come quella dei sussidi. Così come quella dei salari minimi.
Tutti abbiamo studiato macroeconomia, sono temi ben noti, ma è giunta l’ora di tirare fuori idee nuove, perché il sistema attuale non funziona, è evidente.
Quei libri sono stati scritti da gente ricca che vuole schiavizzare le persone, secondo me invece bisogna ribaltare la visione, ovvero fare in modo che tutti lavorino dignitosamente per potersi godere la vita, non per far arricchire qualcun altro.
Questo qualcun altro deve imparare a ridurre un po’ il suo profitto “indiretto” (ovvero quello che deriva dallo sfruttamento dei lavoratori) e pensare a come incrementare quello “diretto” (ovvero quello che deriva dalla vendita dei prodotti).
Il problema del costo del lavoro esiste per chi non riesce a commercializzare prodotti eccellenti e vuole mantenere buoni margini, ma non è giusto.
@Pietro Monsurrò
Non è mia intenzione far saltare i conti (che tra l’altro saltano già da 50 anni – vedi debito pubblico), anzi: sono convinto che i conti possono migliorare proprio grazie alla piena occupazione e alla conseguente eliminazione delle inefficienze (esenzioni, sussidi, criminalità, bassa produttività oraria se la prospettiva è rimanere in ufficio 10 ore, poco tempo per consumare, basso potere negoziale dei lavoratori anche qualificati causato dalla presenza di disoccupati pronti a subentrare ecc…).
Credo che la piena occupazione può anche causare la possibilità di riduzione degli organici pubblici, tipicamente parassitari e inefficienti, grazie al fatto che le imprese che vorranno continuare a essere produttive dovranno assumere personale, per assumere personale qualificato dovranno pagare il giusto e quindi ci sarà più mobilità.
Il buon caro vecchio Hayek , senza usare approcci liberisti o estremisti di mercato , una settantina d’anni fà , aveva mostrato chiaramente come tutte le ipotesi di economia sociale , si sarebbero dovute scontrare inevitabilmente con il problema dei costi. Come gestirli e chi li deve pagare. Penso che tutti ( quindi io compreso ) , prima di lanciarsi in ipotesi di sistemi sociali dove i tradizionali indicatori di mercato vengono messi da parte , e sostituiti con ipotetici indici di felicità o gestioni della struttura occupazionale come minimo problematici ,dovremmo prima leggere quelle pagine . Se non altro perchè , nel corso degli anni si sono puntualmente avverate e quindi , forse , qualcosa di utile da insegnare , lo contengono.
@j
Il salario minimo, così come qualsiasi prezzo minimo imposto per legge riduce l’offerta. Dopo due secoli di economia polica è un’ovvietà abbastanza condivisa da chi non abbia un approccio ideologico. Ma chi non ha un approccio ideologico di solito valuta le affermazioni per quello che sono e non sulla base di una putativa paternità (chi era “la gente ricca che voleva schiavizzare le persone” ? e perché avrebbe avuto bisogno di una teoria per farlo ?)
Io non conosco “chi ha deciso” l’orario d’ufficio 8 – 18. Così come non conosco “quello che ha deciso” che si pranza alle una e si cena alle otto. E nemmeno “quello che ha deciso” che la colazione in Italia debba consistere mediamente in cornetto e cappuccino. O chi ha deciso che si guidi l’auto nella corsia di destra. E sinceramente penso che porsi problemi in questo modo possa condurre a scrivere libri del tipo “L’economia del XXI secolo, spiegata da Cetto Laqualunque”.
@Silvano_IHC
Era quello che pensavo e non mi andava di scriverlo.
Allora:
– Ridurre l’orario e basta significa aumentare li costo del lavoro, quindi + disoccupazione
– Ridurre l’orario e lo stipendio in proporzione significa guadagnare meno, quindi ci sarà qualcuno che fa 2 lavori oppure 1 regolare e 1 in nero
Strano che L’idea di ridurre la tassazione sul lavoro e basta sia così sottovalutata.
Comunque in Italia l’assegno di disoccupazione non fa aumentare la disoccupazione stessa, in quanto la stragrande maggioranza degli aiuti constano nella CIG, e chi è in CIG non è (ancora) considerato disoccupato.
ah ingegnè l’economia non è una scienza esatta…il mondo non è un piano cartesiano…i disoccupati non sono solo una variabile…sono persone, spesso disperate, pronte a tutto per la loro sopravvivenza, e tu? sei pronto a tutto per le tue ideologie? o sei uno di quelli della serie :”armiamoci e andate”?
@davide
Sono le perosne che ragionano in questo modo che causano la disoccupazione, il dbeito pubblico e le crisi economiche. Appena qualcuno cerca di parlare di serietà e principi, qualcun altro dice che bisogna buttare tutto a mare in nome dei buoni sentimenti. Salvo poi scoprire che ad avvantaggiarsene sono sempre solo e soltanto le classi politiche e le lobby ben organizzate…
@Pietro Monsurrò
Ah quindi è chi sostiene che l’economia non sia una scienza esatta (non si tratta di sentimentalismo, ma realtà) che è causa dei mali da Lei elencati? Non credo proprio. Io dico soltanto che l’abolizione dei sussidi di disoccupazione e se vogliamo anche dei minimi salariali, non sono la bacchetta magica che risolve i problemi del mercato del lavoro.
Ci hanno raccontato che la disoccupazione strutturale europea era data dalle rigidità del mercato del lavoro stesso (spiegassero poi perchè fino agli anni ’70, prima degli shock petroliferi, si assisteva al miracolo occupazionale europeo, paradossalmente in presenza di rigidità enormi sul mercato del lavoro), promuovendo la tanto acclamata flessibilità del lavoro, come se l’europa fosse un’area valutaria ottimale ed eventuali shock asimmetrici fossero superabili con la libera circolazione del fattore produttivo lavoro, barzelletta delle barzellette, quanto io italiano sono davvero libero di andare a lavorare in qualsiasi altro paese europeo? non esistono barriere “storiche” (lingue, cultura, pregiudizi) che non mi permettono di mantenere lo stesso standard lavorativo? Qui si parla di lavoratori medi, non di ultra specializzati.
La verità (secondo un mio punto di vista) è che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. In europa si è perseguto l’obiettivo della stabilità monetaria, attraverso la “tolleranza zero” verso il debito pubblico a dispetto della disoccupazione, non ritenuta importante, almeno nel breve periodo, tant’è che dal trattato di lisbona (son passati 10 anni) di passi avanti in tale direzione non ne sono stati fatti.
Qui non si tratta di responsabilizzare la gente, qui si tratta di scaricare il rischio sulla gente, prima il rischio del fallimento nella vita, del non successo (non sempre dato da pigrizia o stupidità delle persone) era ammortizzato dalla fitta rete sociale costruita col welfare, poi smantellata dal liberismo, prima il rischio d’impresa era addossato all’imprenditore, ora il rischio di impresa è in capo al lavoratore precario.
Lei la chiama responsablità, io la chiamo rischio, e tale rischio genera insicurezza, che si traduce in paura ( sarà forse per questo che i politici usano come leva per ottenere voti la puara? unica leva loro rimasta), la paura incide sulle aspettative future, e come ben Lei sa, le aspettive sono importanti in economia.
L’economia non è parte della contabilità, è la contabilità che è parte dell’economia, assieme ad altri segmenti, tra cui quello sociale.
La ricerca di soluzioni semplici a problemi complessi è il vizio/difetto che si trascina da sempre la scuola austrica, che come noto è la vostra “musa ispiratrice”, certo poi che se anche uno come M.Friedman (non certo un keynesiano) nutriva forti dubbi sulla teoria economica di vonHayek, forse qualche domanda uno se la dovrebbe fare.
Concludendo Le vorrei chiedere se secondo Lei, con l’abollizione dei sussidi di disoccupazione e dei salari minimi che creerebbero una pressione al ribasso sui salari nominali, potremmo assistere a una riduzuione parimenti elastica dei prezzi tale da mantere i salari reali costanti? Io sono sicuro che nel caso inverso, cioè aumento dei salari nominali, si verificherebbe un aumento dei prezzi, ma non sono così sicuro del contrario…
@ Davide: il tasso di disoccupazione è costantemente aumentato proprio a partire dagli anni ’70, quando le rigidità del mercato del lavoro hanno iniziato ad aumentare. E’ rimasto a valori alti per tutti gli anni ’80 e i primi anni ’90 , ovvero quando le rigidità hanno toccato il valore massimo . Dalla fine degli anni ’90 con la progressiva flessibilizzazione del mercato del lavoro la disoccupazione è diminuita fino all’attuale 8,7 % in piena crisi economica , contro il picco del 12% degli anni ’90 in situazione di crescita. Questi sono i dati ufficiali istat . Certo , lei può anche dirmi che sono falsi , ma a questo punto tutto diventa soggettivo e lei può pure presentare i suoi , io presento i miei e ognuno si tiene le proprie convinzioni egualmente valevoli. Per quanto riguarda la teoria austriaca , è paradossale che venga tirata in ballo sul problema della disoccupazione , che è una delle poche aree dell’economia dove le posizioni sono pressocchè identiche a quelle di Friedman e dei monetaristi. Quanto al problema della disoccupazione , piaccia o non piaccia , il lavoro è un fattore della produzione . Ne di più ne di meno. Genericamente , se vogliamo che venga utilizzato nella produzione , il suo costo deve essere contenuto. Questa è la base . Possiamo pure ragionare di tutto il resto, ma da lì si deve partire. Su questo punto , per tornare anche al suo discorso sulle presunte rigidità presenti negli anni della grande crescita , ovvero gli anni ’50-’60, devo anche ricordarle che dal 1954 al 1969 in Italia erano presenti le gabbie salariali , sistema infinitamente più flessibile dei salari, rispetto a quanto abbiamo oggi , grazie alle quali la disoccupazione al sud era praticamente scomparsa. Disoccupazione ricomparsa e arrivata al 25% attuale da quando per l’appunto nei primi anni ’70 sono state abolite e sostituite dalla rigidità salariale attuale.
Quanto poi al trade-off debito pubblico disoccupazione , questo è semplicemente sbagliato. Abbiamo paesi con debito basso e disoccupazione bassa, paesi con debito alto e disoccupazione alta , e viceversa. Il debito chiaramente non è la variabile esplicativa.
ipotesi FIAT: linea di produzione Fiat 500 vs linea di produzione Fiat Multipla, costo manodopera = 100 in entrambe le fabbriche.
Fiat 500 va alla grande anche tenendo il prezzo in fascia prime, mentre Multipla, anche tirandola appresso alla gente non si vende.
Giustificazione? I lavoratori costano troppo e non possiamo proprio licenziarli per via della rigidità del lavoro.
Direi che il sillogismo Marchionniano ha un senso se schematizzato in un libro di economia, ma nel mondo reale tutti sanno che la base del problema è il prodotto, non il suo costo (salvo per le commodities). Anche prodotti come l’iPhone non credo che avrebbero problemi ad assorbire un costo “giusto” della manodopera.
E’ come quando si dice che chi possiede un accendino ha più chance di morire di cancro ai polmoni, le statistiche lo confermano, ma siamo sempre certi di aver scelto le variabili giuste per confermare la nostra ipotesi?
Quello che chiedo io, e qui finisco perché sono andato off-topic (e me ne scuso con l’autore del post), è di non ripetere sempre gli stessi dogmi da neolaureato, ma di cercare le possibili variabili sbagliate in un sistema che – evidentemente – ha qualcosa che non va.
Io ho provato a ipotizzare che l’orario di lavoro eccessivo unito a una tassazione posta in un punto sbagliato (sul lavoro anziché sui consumi) possano essere cause di depauperamento generale e di malessere sociale. Tutto contestabile, per carità, continuerò a lavorarci per dimostrarne la validità o ricredermi, chiedo però agli economisti di non essere così inutili nelle loro spiegazioni degli eventi del mondo e di cercare di mettere l’uomo al centro, non il prodotto.
Saluti.
@Silvano_IHC
Gli orari non li ha scritti nessuno:
conosco gente che fa in ufficio le 7-20 orario continuato sabato mattina compreso e anche gente che il venerdì puntualmente è malata (se non lui la figlia, la mamma sul punto di morte, un figlio che ha fatto un’incidente ecc…)
Per me che mi sono sempre arrangiato a lavorare per conto mio gli orari sono sanciti solo per una fetta privilegiata di lavoratori, siano essi liberi professionisti o lavoratori dipendenti.
@MassimoF.
non condivido molto quello che ha scritto, la mia analisi è profondamente diversa:
– Le ricordo che il miracolo economico italiano entrò in crisi (circa metà anni ’60) perchè si andava verso la piena occupazione, con forte assorbimento della manodopera nel settore edilizio, che portò a salari effettivi maggiori di quelli contrattuali (sbugiardando il modello di Vera Lutz, che vedeva le rigidità del mercato del lavoro, in specifico l’azione sindacale, colpevole degli aumenti salariali) che mise in crisi il settore esportatore (trainante nel miracolo economico) e ridusse l’occupazione nella grande impresa verso gli inizi degli anni ’70. Dire che il calo occupazionale fu dato solo dall’aumento delle rigidità del mercato del lavoro, mi pare perciò un pochino fuori luogo. Comunque la mia osservazione era un’altra, esisteva un miracolo occupazionale europeo pur in presenza di forti rigidità del mercato del lavoro, mentre negli Usa si assisteva a una disoccupazione più elevata con maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.
– per quanto riguarda l’istat, si può continuare col filo storico intrapreso per capire come i dati istat non sono per me falsi, ma sono storicamente “strambi”, infatti fino al censimento dell’91 con ben 15/16 anni di ritardo non si accorse che l’occupazione industriale non era diminuita in termini assoluti, ma solo diminuita nella grande impresa, perchè dal ’75 in poi prese piede il c.d. fenomeno della industrializzazione diffusa, caratterizzata da piccole e medie imprese che vedevano aumenti occupazionali cospiqui nelle zone precedentemente non industrializzate (veneto, emilia romagna, friuli venezia giulia, marche, tra le più eclatanti). Tale ritardo fu tragico, portando a scelte di politica economica profondamente sbagliate.
– dire poi che il problema della disoccupazione nel sud durante il miracolo economico fu risolto grazie alle gabbie salariali, vuol dire, mi scusi la volgarità, sputare in faccia alla storia di milioni di meridionali che con la valigia di cartone viaggiavano verso il nord industrializzato (o l’estero), quando l’industria era ancora concentrata per lo più nel triangolo industriale mi-to-ge, questo assorbì le grandi masse di lavoratori disoccupati del sud. Disoccupazione incentivata anche dalle politiche agrario capitaliste a discapito dei piccoli coltivatori, facendo buon viso a cattivo gioco con la riforma agraria del 1950.
– Per quanto riguarda il trade-off tra disoccupazione e deb pub, non so dove io possa aver scritto che esiste tale trade off, ho solo affermato che l’europa si è trovata ad un bivio durante la sua nascita, effettuare politiche monetarie per stabilizzare l’euro o politiche occupazionali, ha scelto la prima opzione, vuole discutere anche su questo? opzione tra l’altro fortemente criticata da molti tra cui : Solow, Modigliani, Samuelson…
Potrebbe cercare un trade-off tra politiche deflazionistiche e andamento della domanda aggregata.
– L’occupazione al sud tornò a crescere non per l’abolizione delle gabbie salariali, ma perchè come detto prima, il nord con l’entrata in crisi del miracolo economico non era più quella spugna che assorbiva la forza lavoro in eccesso del sud, si può verificare questo con la riduzione drastica di migrazioni da sud a nord. L’incapacità poi negli anni seguenti di implementare politiche economiche adeguate per il sud ( anche a causa ripeto dei dati strampalati dell’istat) porto ad interventi senza alcuna logica razionale nell’economia del sud (es. le c.d. cattedrali nel deserto) che finirono non solo per non aiutare l’economia del sud, ma danneggiarla in termini occupazionali.
– la competitività di un paese si misura sul CLUP costo del lavoro per unità prodotta, l’ho già scritto precedentemente, il clup= w/(Y/L),tanto è minore tale rapporto tanto maggiore è la competitività del paese, Lei vedo che è portato a pensare che ci voglia un calo dei salari (w) a mio avviso per un paese avanzato è più logico pensare ad un aumento della produttività del lavoro (y/L) che si ottiene o schiavizzando i lavoratori o, secondo me meglio, attraverso investimenti produttivi.
@ Davide :
1) I primi aumenti salariali consistenti ci furono solo verso la fine degli anni ’60 . Comunque ancora non tali da pregiudicare la competitività delle imprese. Inoltre non ho mai detto che il calo occupazionale fu l’effetto solo delle rigidità del mercato del lavoro. La disoccupazione venne a crearsi negli anni ’70 quando da un lato stavano aumentando le rigidità, ma dall’altro stavano aumentando i salari oltre il livello corretto. Quindi , la disoccupazione , che comparve ripeto negli anni ’70 fu dovuta al mix aumento rigidità-costo del lavoro.
2) Sui dati istat come le ho detto , possono essere contestati , ma allora ognuno porti i suoi , e ognuno creda ai suoi con pari dignità. Il fatto da lei contestato comunque non pregiudica il discorso : la disoccupazione è aumentata a partire dagli anni ’70 per toccare il massimo negli anni ’90 , ovvero è partita quando la flessibilità ha iniziato a diminuire e ha toccato il massimo quando la rigidità del mercato del lavoro è stata massima.
3) Sarà anche sputare in faccia alle persone che emigrarono dal sud al nord ( cosa che contesto visto che proprio non ne vedo il nesso ) , ma è la verità. Nella prima metà degli anni ’60 la disoccupazione era virtualmente sparita . Se le gabbie salariali non avevano nesun merito, la disoccupazione magari sarebbe salita , ma sarebbe dovuta rimane nella media nazionale . Invece , proprio dalla abolizione delle gabbie , il tasso di disoccupazione in breve tempo schizzò ai livelli attuali del 25% . Negare l’importanza dello sfasamento salariale vuol dire solo continuare a condannare il sud alla povertà.
4) Politiche monetarie : stesso discorso del debito pubblico ( di cui lei ha comunque parlato ). Abbiamo paesi con politiche monetarie rigide e bassi tassi di disoccupazione e paesi con politiche monetarie lassiste e alto tasso di disoccupazione. Quindi come vede il nesso non c’è. La stessa area euro , con le sue rigide politiche monetarie e di controllo di bilancio , ha la disoccupazione comunque minore di quella pre-euro . Questi sono i dati reali.
5) Concordo con lei che la competitività di un paese sia data dagli investimenti ( privati aggiungo io ) , ma con costo del lavoro fuori controllo , e con l’attuale tassazione sui profitti e sui redditi alti , lei li sfavorirà. E’ il problema vissuto negli anni ’70 , quando il costo del lavoro aumenta e le imprese rispondono con aumenti dei prezzi superiori , portando alta inflazione. Questo agli inizi. Alla fine , quando non si reggeva più l’aumento del costo del lavoro si è risposto con investimenti sostitutivi del fattore lavoro. Ma oggi non sarebbe possibile, in quanto a causa della tassazione elevata , non è mediamente remunerativo investire , quindi ci troveremmo solo con alta inflazione , salari che cercano a tutti i costi di inseguire l’inflazione , alta disoccupazione e poche imprese. Anche se la tassazione fosse bassa, sarebbe comunque sbagliato aumentare i salari oltre il livello di aumento della produttività , in quanto gli investimenti verrebbero naturalmente fatti grazie per l’appunto alla bassa pressione fiscale, mentre l’eventuale costo del lavoro aumentato sarebbe scaricato semplicemente sui prezzi.
@MassimoF.
probabilmente abbiamo dati diversi, non so che dire
– primo slittamento salariale si ebbe nel 63 che sancì la fine del miracolo economico, senza che ci fu nessun aumento delle rigidità del mercato del lavoro, ma per il semplice fatto che con l’aumento dell’occupazione quasi ad arrivare alla piena occupazione ci furono pressioni al rialzo sui salari, si verificò ripeto che i salari effettivi erano maggiori dei salari contrattuali.
– le rivendicazioni salariali fine anni 60 con le lotte di classe, non portarono ad aumento della disoccupazione e alla crisi in termini assoluti, l’istat sbagliò clamorosamente le sue stime, vedendo una diminuzione della occupazione industriale e una stagflazione, perchè non vedeva i profondi cambiamenti che erano in atto nel sistema produttivo italiano. La diminuzione dell’occupazione c’era, solo nella grande impresa però, come risposta alle lotte di classe, che sono un effetto di ciò che era avvenuto ( aumento del costo della vita, data dalla saturazione delle aree urbane nel triangolo industriale), prima di essere una causa di quello che doveva avvenire.
Nella realtà si verificò un aumento degli stabilimenti industriali di piccole e medie dimensioni, come si può parlare di crisi se nel 1975 l’occupazione risultava essere +83% in veneto, + 75% Marche, + 50% in lombardia, il calo occupazionale nel settore industriale si verificò in liguria e piemonte, a testimonianza che il modello di sviluppo su cui si era basato il miracolo economico, cioè grandi imprese in aree concentrate (mi-to-ge) era cambiato, si andava a formare quello che Bagnasco definì la terza italia.
Fino al 1963 la disoccupazione al sud non diminuiva perchè si sviluppavano industrie al sud o per le gabbie salariali, ma per il semplice fatto che il nord esercitava ancora quel ruolo di spugna che assorbiva l’eccesso di forza lavoro meridionale, perciò la disoccupazione al sud diminuiva perchè la gente se ne andava dal sud, creando quella riserva di forza lavoro al nord capace di esercitare pressioni al ribasso sui salari, funzionale allo sviluppo capitalistico dell’industria del nord.
Quando si ruppe il meccanismo del miracolo economico a causa di un aumento dell’assorbimento della forza lavoro nel settore edilizio, vi fu proprio nel 63 come detto il primo slittamento salariale, che mise in crisi l’industria esportatrice, quella trainante nel miracolo economico.
Per quanto riguarda le politiche monetarie, ieri sera ho scritto di pancia vista la tarda ora, sbagliando, anche se poi 2 righe sotto involontariamente mi sono corretto da solo. Mi riferivo a politiche deflazionistiche e non monetarie, mi scuso. Perciò si può cercare un trade off tra politiche deflazionistiche e andamento della domanda, come scritto 2 righe sotto.
Le vorrei però ricordare che le politiche poste in atto per entrare nell’Ue e nell’Ume iniziarono nel 92, col trattato di maastricht, la invito a leggere l’analisi di Fitoussi (1997) dove si nega con vigore che la disoccupazione europea degli anni 90 possa essere attribuita alle rigidità salariali o alla concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione, ma dalla ventata restrittiva conseguente al trattato di maastricht.
Può darsi che anche quelli siano dati reali, dato che il tax di disocc. più alto nn italia dall’83 si verifico nell’aprile 98 (11,5%) un mese prima dell’esame degli organi della comunità sui requisiti dei paesi per l’adesione all’Ue, dopo un aumento costante iniziato proprio nel 1992 (col trattato di maastricht?).
E’ vero che poi è diminuito dal 2000 al 2005 ma risultò essere non molto diverso da quello di inizi anni 90, e sicuramente molto maggiore rispetto a quello di inizi anni 80.
L’attuale tassazione sul lavoro è frutto proprio delle scelte di stabilità monetaria dell’ue, ricordo che quello che conta è il rapporto deb.pub/pil, e per entrare in europa l’italia ha dovuto dare l’idea di poter rientrare nel parametro richiesto da maastricht: deb.pub/pil =60% e si è deciso di operare sul debito pubblico o sul disavanzo (disavanzo/pil=3%) e non sull’aumento del pil , perchè dava più garanzie di stabilità monetaria…si ritorna sempre a quel discorso.