22
Set
2014

Articolo 18: quel che sappiamo degli effetti, per un riformismo serio

Alla politica piace ragionare per slogan. Sulle intenzioni di Renzi sul Jobs Act, e in particolare sulle modifiche all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, fioccano i “timbri”. C’è chi l’ha avvicinato alla Thatcher, chi a Blair, o a Craxi. Il traslato è un modo per non parlare della realtà, ma per definire a prescindere – con giudizi “valoriali” – le intenzioni di modificarla. Un serio riformismo dovrebbe usare un altro metodo. Partire dai fatti: cioè valutare oggettivamente quali effetti reali ha provocato una certa norma, e che cosa determinerebbe invece la sua modifica. Dopodiché, ma solo ”dopo” e non “prima”, ciascuno resta libero di giudicare secondo le proprie idee, che in Italia in materia di lavoro sono ancora quasi sempre “ideologie”.

Se analizziamo oggettivamente le disfunzionalità del mercato del lavoro, come ho già scritto si dovrebbe partire dalla bassa occupazione, e dalla bassa produttività. Sulla prima questione, ricordiamo che tra i 15 e i 64 anni, a fine 2013 il tasso di occupazione italiano era al 49,9%, quello tedesco al 72,3%. Sulla seconda: se guardiamo alla manifattura italiana e considerando base 100 il 2000, la produttività oraria è salita al 2013 solo verso quota 110 mentre i salari orari sono arrivati oltre quota 155; nell’eurozona nel frattempo la produttività oraria è passata da 100 a 140 e i salari a 145. Una buona riforma del lavoro dovrebbe deve unire l’identificazione e rimozione sia degli ostacoli all’occupabilità, sia di quelli alla produttività.

Ma non è di queste macro disfunzionalità che si parla, purtroppo. Bensì, ancora una volta, dell’abolizione eventuale del reintegro giudiziario in caso di licenziamenti economici, nei nuovi contratti triennali a tutele crescenti che il governo vuole introdurre. Per evitare la divisione “ideologica” di una scelta favorevole o contraria in via pregiudiziale, cerchiamo di capire gli effetti determinati dall’articolo 18.

L’OCSE valuta ogni anno in termini comparati le diverse forme nazionali delle restrizioni ai licenziamenti individuali e collettivi: l’Italia dopo decenni di stabilità a quota 2,76 è scesa con la riforma Fornero a quota 2,51, ma il confronto è con la media Ocse a 2,04, UK a quota 1,03, Svizzera 1,60, Spagna 2,05, Francia a 2,38. Tutti dunque più flessibili di noi. Solo la Germania ci supera, a quota 2,87.

I vincoli al licenziamento assicurano il lavoratore contro le fluttuazioni del mercato del lavoro, ne trasferiscono l’onere sull’impresa, che dovrebbe fronteggiarne gli effetti con maggiore facilità. Ma in concreto, la tutela più forte come modifica il comportamento delle imprese? Per rispondere a questa domanda, c’è una copiosa letteratura di ricerche comparate in sede Ocse. Maggiore è la protezione, minori risultano i flussi da occupazione a disoccupazione, e viceversa. E’ il classico effetto di tutela dell’occupazione stabile: da noi amplificata col sistema CIG. Le imprese razionalizzano prodotti e sistemi produttivi meno rapidamente di quanto dovrebbero fare inseguendo le curve di costo e domanda; si abbassa l’utilizzo degli impianti, salvaguardando piante organiche lasciate in CIG ma alzando il costo fisso del capitale fisico e finanziario; e infine grazie alla frammentazioopne del mercato del lavoro in Italia la variabilità della domanda di lavoro si risolve con contratti a tempo determinato – i precari a minori tutele come capita in Italia da molti anni, bruciando generazioni intere di più giovani. Ridurre la velocità di distruzione di posti di lavoro sembra una cosa positiva ma non lo è: si accompagna alla riduzione di velocità della creazione di quelli nuovi.

Tanto è vero che gli studi comparati Ocse rivelano che maggiore è la protezione dell’occupazione, con limiti a licenziamento e reintegri giudiziali, peggio va per donne e giovani, sia in termini di minor occupazione sia di maggior disoccupazione. Tutto ciò con effetti quantitativamente ancor più negativi quanto più forte è il livello di contrattazione collettiva, cioè quanto i salari fanno più difficoltà a variare tanto verso l’alto se le cose vanno bene, quanto verso il basso se vanno male. In presenza di protezione dell’occupazione le imprese diventano inoltre più selettive, e assumono con maggiore probabilità lavoratori più istruiti. Mentre quando si riduce la protezione dell’occupazione le imprese iniziano a sostituire contratti temporanei con contratti permanenti. Cioè più persone vengono assunte con contratti a tempo indeterminato.

Sin qui, appare evidente dagli studi comparati che esiste uno “scambio” tra protezione al licenziamento ed effetti collettivi positivi se il primo si attenua, quando i benefici verificati della tutela superano i costi privati e pubblici. Ma cerchiamo di capire anche se studi seri sono stati fatti in Italia, sugli effetti dell’articolo 18. Molte ricerche si sono incentrate sull’effetto-soglia. Se cioè la tutela per i lavoratori sopra le 15 unità di dipendenti per impresa rappresentasse un freno alla crescita dimensionale delle aziende italiane. Quasi tutte le ricerche – di Garibaldi, Pacelli, Schivardi, Torrini – concordano che l’effetto soglia esiste, ma è meno rilevante di quanto spesso si creda. Non spiegherebbe che il 2% delle decisioni di non crescere. Piuttosto, anche le imprese italiane analizzate sotto i 15 dipendenti hanno manifestato effetti importanti sui flussi di lavoratori in entrata e in uscita. Assunzioni e licenziamento nei contratti a tempo indeterminato sono calati nelle imprese piccole rispetto alle grandi, sostituiti anche qui dal ricorso massicico dei contratti a tempo determinato. Tutto ciò ha in sostanza allungato i tempi di attesa verso “posti protetti” nella vita di ogni lavoratore.

Ci sono poi altri due effetti, ai quali i più non guardano. Quello dell’articolo 18 sui salari, e quello sulla produttività. Le ricerche italiane mostrano che le imprese traslano l’effetto-assicurazione al posto fisso – quella che in gergo tecnico si chiama job property – riducendo i salari settimanali: solo che la rigidità dei contratti nazionali di categoria per la parte salariale garantisce anche qui i già tutelati, e la riduzione comparata di salario va a carico dei contratti a tempo determinato che dalle tutele sono esclusi. L’apartheid di cui parla Renzi non è solo quella tra chi è tutelato dall’articolo 18, una minoranza secca dei 22,4 milioni di lavoratori italiani, e chi no. C’è anche quella dovuta al fatto che gli oneri assicurativi a favore dei tutelati, in una stessa impresa si traduce in minori salari di chi la tutela non ce l’ha. Stiamo parlando di minori salari tra il 10 e il 15%, a seconda dei diversi settori, e una quota di questo gap si deve proprio alla copertura degli oneri di licenziamento dei “tutelati” a tempo indeterminato. Infine, la produtitvità. La tutela elevata ai licenziamenti induce le imprese anche a un minore stock di capitale per unità di lavoro. C’è chi ha stimato che la riduzione della tutela al licenziamento verso il coefficiente OCSE della Danimarca – 2,20 rispetto al nostro 2,53 – produrrebbe negli anni un incremento dell’11,2%, degli investimenti, e del 7% della produttività del lavoro.

Analizzati tutti questi effetti, la soluzione obbligata è riscrivere il trade off tra tutela al licenziamento ed esternalità negative che ne vengono all’occupabilità e alla crescita della produttività. La soluzione dell’equazione non si fa solo abolendo il reintegro giudiziale, ma con:

-una seria riforma contestuale degli ammortizzatori sociali ( attenti al costo e a chi lo paga, se le imprese e in che misura, se la fiscalità generale e in che misura: non ho visto sinora alcuna stima attendibile degli oneri relativi all’estensione da subito a tutti di un ASPI più elevato a 3,2 milioni di disoccupati come Renzi apparentemente propone!)

-evitando ulteriori frammentazioni delle tutele e del mercato del lavoro: il che significa 1) – superare l’illicenziabilità di fatto nella PA mentre si diminuisce la tutela nel contratto d’insertimento privato; 2) – definire riforme che valgano per tutti e da subito, non per coorti nuove di dipendenti privati avviati al contratto d’inserimento mentre per tutti gli altri la disciplina resta uguale; 3)- NON confodnere il trade off tra licenziabilità ed esternalità positiove nel tempo indeterminato con la contrarietà pregiudiziale ai contratti a tempo determinato, di cui le imprese continueranno ad avere assoluto bisogno

-realizzando la contestuale riforma del sistema di intermediazione tra domanda e offerta del lavoro, aprendo agli intermediari privati

– scegliendo nettamente più contrattazione decentrata al posto di quella nazionale, compresa la parte salariale, se vogliamo che il trade off tra tutele e occuopabilitàò investa anche la maggior produttività del lavoro e delle imprese.

Giudicate voi, ora, se il Jobs Act su cui Pd e sindacati si accapigliano proceda secondo questi criteri.

 

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9 Responses

  1. Antonio Tabasso

    Finalmente un po’ di chiarezza! Grazie Giannino!
    Perchè finora Renzi, parlando di fine dell’apartheid, non ha però detto se la riforma si applicherà anche a chi ancora gode delle tutele dell’art. 18. Vuole innovare? Vuole superare il mercato del lavoro diviso tra lavoratori di serie A e di serie B? Abbia il coraggio di applicare a tutti la riforma, altrimenti sarà solo l’ennesima riforma che non cambia nulla e che non favorisce quella mobilità del lavoro e sul lavoro che occorre.
    Poi, però, chiediamoci se oggi un lavoratore con un contratto a tempo determinato o in somministrazione non riesce a contrarre un mutuo, riuscirà ad ottenerlo un lavoratore con un contratto a tutele crescenti, che non garantisce negli anni un reddito sicuro, se lo stesso lavoratore può essere lasciato a casa dall’oggi al domani con un’indennità minima?

  2. Paolo Mariti

    Giannino:
    il suo discorso è in qualche misura condivisibile.Che le imprese cerchino di tagliare i costi evitabili è fatto certo. Utlizzando le molte forme contrattuali di assunzione, un uso improprio della partita Iva e consulenze varie a vecchio personale in pensione hanno ottenuto proprio tale obiettivo esacerbando la quota del lavoro precario.
    L’art. 18 intese in origine modificare l’asimmetria di potere tra datori di lavoro e lavoratori (lasciandone fuori parecchie categorie). Ed oggi puntualmente ciò che è in gioco è una modifica dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratorii. Una questione politica prima assai che economica. Ma l’art. 18 è divenuto un simbolo anche se in pratica regola una parte del mercato del lavoro, e più dal lato delle uscite che dell’entrata.Ciò quando invece è la accorta disciplina, a larghe maglie, dell’organizzazione del lavoro che potrebbe consentire di raggiungere maggiore flessibilità in vista di maggiore produttività nelle imprese. Le dice niente che il coeffiiente OCSE della Germania sia addirittura superiore a quello italiano? aAmio avviso, una attuazione dell’art. 39 della Costituzione sarebbe prova di una serio spirito di riforma.
    Cordialità, Paolo Mariti

  3. Oscar Giannino

    Sull’attuazione art.39 Cost sono completamente d’accordo con lei, ma credo sappia come me qual è il tabù che lo ha sempre impedito alla politica…

  4. adriano

    Analisi troppo complicata.Molto più semplicemmente l’impossibilità di risolvere un contratto è un impedimento a stipularne altri.Per spiegare gli effetti del cosidetto articolo 18 basta e avanza.Quando sento parlare i signori della sinistra antica del reintegro necessario per evitare licenziamenti immotivati non riesco a capire.Chi gestisce l’impresa non può essere obbligato per sempre,altrimenti sceglierà ,quando lo può fare,di non esserlo mai.Per il resto un accenno al pubblico impiego.Ritengo illusorio esercitarsi sulla possibilità di equiparare pubblico e privato.Qualunque provvedimento lo preveda sarà sempre una furba finzione.Meglio cercare di ridurre il problema privatizzando le funzioni operative che possono esserlo e mantenere sotto l’ala protettrice di mamma stato solo le funzioni indispensabili a fare meno danni possibili.Nelle graduatorie dell’impossibilità è la soluzione più facile e meno improbabile.

  5. Gianfranco

    Caro Adriano, secondo me stiamo parlando della stessa medaglia, vista da due angolazioni diverse.

    In primis: il piu’ grande imprenditore italiano e’ lo stato. Uno stato che mantiene milioni di persone senza nemmeno sapere a che livello di efficienza o efficacia producano valore aggiunto. Con “stato” intendo anche provincie, comuni, controllate e sussidiare.
    Il puro volume di queste persone impedisce qualunque taglio: anche solo il 10% vorrebbe dire lasciarne a casa centinaia di migliaia che non saprebbero nemmeno cosa fare. Nel senso: anche se cercassero lavoro sarebbero non collocabili. E poi dove? Al sud?
    Quindi da una parte abbiamo lo stato che tenta in tutti i modi di non causare il collasso sociale del paese.

    Dall’altra abbiamo un privato egualmente tarato. Un privato microscopico, per cui il 18 e’ ininfluente, ed un privato medio grande, dove le logiche di produttivita’ sono relative perche’ esistono strumenti, statali, di compensazione e dove quindi le assunzioni spesso non sono state legate a criteri oggettivi di necessita’. Far passare il 18 adesso significherebbe che decine di migliaia di persone si troveranno senza lavoro. Anche queste, come gli statali, scarsamente ricollocabili: pensiamo agli uffici amministrazione…

    Il problema del 18 non e’ che sia anacronistico: e’ che avrebbe dovuto essere abolito 30 anni fa. Non oggi. Tra l’altro i licenziati dovrebbero ricadere nel welfare: ancora il privato si farebbe scudo dello Stato.

    Le risposte, caro mio, sono altrove. Non lasciamoci trascinare da concetti non razionali di “incompetenza” o “inefficienza”.

  6. Luca

    Sinceramente non capisco il suo estrmo interesse per questo argomento. Purtroppo per i dipendenti privati i licenziamenti sono all’ordine del giorno; ormai sono centinaia di migliaia le persone che hanno perso il lavoro. I diritti, nel privato ormai non ci sono più. E invece di parlare di dargli delle speranze anche di un giusto riconoscimento si parla di trattarli ne più ne meno come un qualsiasi bene alienabile dell’azienda. Ma il mio dubbio nasce soprattutto dalle prospettive, se questi lavoratori insieme agli imprenditori onesti non risolleveranno l’Italia chi lo farà: i politici, i dipendenti pubblici o i pensionati?

  7. wilcoyote

    Articolo abbastanza equilibrato, solo vorrei sapere dove il sig. Giannino ha preso i dati e le cifre. Perché un articolo del genere sia credibile, bisogna citare le fonti.

  8. Francesco Armezzani

    ecco finalmente un argomento, per di più espresso con diversi caveat. il 25 sarò in piazza con la cgil ma almeno ho capito in che cosa veramente dovrebbe consistere la questione.
    la parte finale comprende anche le cose che andrebbero fatte contestualmente all’articolo 18 e che ci si domanda se siano o meno presenti nel jobs act.
    domanda retorica: diversi dubbi li sollevano anche Boeri-Garibaldi. In ogni caso loro restano favorevoli al mantenimento dell’art.18 a tutele crescenti dopo un periodo determinato. Mentre Giannino mi sembra più posizionato sul no. Con argomenti comunque.
    mille grazie

  9. Luka

    Mi rendo conto che i sui sono discorsi colti e altissimi e io mio invece … terra terra … ma sa … non si mangia con le parole.
    Comunque … analisi interessante ma sono numeri, numeri che ipotizzano cosa potrebbe accadere se…e se mia nonna avesse le ruote sarebbe una carriola.
    Nessuno che ipotizzi cosa potrebbe succedere se improvvisamente 100.000 persone venissero licenziate e nessuna azienda straniera venisse ad investire nel nostro Paese. Invito a rivedervi la storia americana di IBM e il suo rapporto con gli impiegati over 50.
    Ora, io vorrei informare il sig. Giannino che la difesa dell’art.18 non è una questione ideologica o, almeno, non lo è per me; è solo paura, paura di perdere il proprio posto di lavoro, di non sapere come pagare il mutuo, le bollette ecc. ecc. Qualcuno potrebbe obiettare che il decadimento dell’articolo (che vale per solo il 5% delle aziende italiane .. mah!!) non significa automaticamente licenziamenti di massa, neanche io lo penso, ma non dobbiamo dimenticare che questa è l’Italia delle Meraviglie, non è la Danimarca e non è la Germania. Vede Giannino io ho lavorato sempre in aziende dove l’art.18 difendeva chi lavorava (anche quelli che bollavano l’uscita e poi andavano a far straordinario) e ne ho viste tante perché in queste aziende non si ha a che fare con un imprenditore “lavoratore” ma con uomini (simili a quegli imprenditori “lavoratori” che festeggiano in casi di terremoto). Potrei raccontare molte brutte storie di dignità del lavoro e delle persone calpestate talmente calpestate che qualcuno, alla fine, gli ha trovato anche la definizione inglese (guarda caso).
    Mi spieghi perché io lavoro praticamente da sempre in aziende straniere (ma non si diceva che non investono in Italia?). Mi spieghi perché, ad esempio, l’Ikea ha dovuto abbandonare il progetto di costruire uno Store nella mia provincia (a prescindere dall’art.18) dopo 7 anni di attesa causa “beghe” burocratiche. Mi spieghi perché la mia azienda assume, a prescindere dalle inutili agevolazioni pubbliche o dell’art.18. Mi spieghi perché ogni volta c’è un problema in questo benedetto Paese a pagare DEVONO SEMPRE ESSERE operai e impiegati (lo puntualizzo perché non ho mai visto alcun dirigente rinunciare a un benefits durante un periodo di crisi … e anche qui ne potrei raccontare) e infine, mi spieghi perché un tizio che ha ottenuto 11 milioni di voti su 49 milioni di elettori (pari al 23% circa), che ha vinto le Europee che notoriamente non si fila nessuno, che viene assunto come dirigente nell’azienda di papino che pare sappia solo far fallire aziende (quindi .. di lavoro … che ne sa!!!??), uno che è, dice, di sinistra ma è pappa & cicicia con Marchionne imprenditore “lavoratore”, in un momento critico come questo deve incasinarci la vita. Secondo lei se aboliscono l’art.18 io spendo di più?. Ma secondo lei il precario di oggi non vorrebbe essere tutelato dall’art.18? Ed è possibile che per dare dignità al lavoro e al lavoratore sia stato necessario introdurre un articolo di “statuto”?
    Il problema non è quello che pensa lei ma sono le aziende come FIAT che per “ripicca” mettono in mobilità 19 operai (non li possono ancora licenziare) perché costretti a riassumere 19 licenziati FIOM. Non temiamo l’abolizione dell’art. 18: temiamo di avere a che fare con certa gentaglia.

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