25
Nov
2022

Antonin Scalia e lo spirito della democrazia

Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Gemma Mantovani

Se credete di non sapere chi sia il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Antonin Scalia (Trenton, 11 marzo 1936-Shafter, 13 febbraio 2016) leggete il bellissimo libro di Giuseppe Portonera Antonin Scalia (IBL Libri, collana “Classici contemporanei”, 2022). Ma vi accorgerete che vi sbagliavate, perché di vista lo conoscete benissimo. Era uguale all’attore Paul Sorvino, il volto dell’italo-americano del cinema e delle serie di Hollywood; quello stesso Paul Sorvino che un giorno, per difendere la figlia da un ex fidanzato che l’aveva rinchiusa in una stanza d’albergo nel tentativo di ucciderla, si presentò per liberarla, arrivando prima della polizia, con un’arma da fuoco, legittimamente detenuta. Dietro questo gesto, c’è il giudice Scalia.

Infatti, nel famoso caso District of Columbia vs Heller, riguardante proprio il diritto a possedere un’arma, Scalia afferma, in sostanza, che se lo Stato si arma per la sicurezza di uno Stato libero, così può fare l’individuo per difendere la propria libertà e sicurezza, stabilendo che il diritto di possedere armi è un diritto individuale. Si tratta di una sentenza discutibile, come molte sentenze del giudice Scalia. Ma proprio la discussione, arguing, l’amore per il dibattito, per il confronto anche duro e durissimo, era l’essenza della sua passione per il diritto ed è, in fondo, l’essenza, lo spirito della democrazia.

Attacco le idee non le persone. Alcune bravissime persone hanno pessime idee” disse in un’intervista in cui parlava della storica e profonda amicizia con il suo opposto, il giudice liberal Ruth Bader Ginsburg, con la quale condivise battaglie giuridiche su fronti opposti, viaggi, l’amore per il buon cibo e gli onori del palcoscenico, ispiratori perfino di un’opera teatrale. Probabilmente sarebbe stato un grande attore, il giudice Scalia, con quella capacità di coinvolgere e di catturare l’attenzione anche dei più avulsi dal mondo del diritto (si trovano on line alcune brillanti e gustose interviste rilasciate in popolari programmi tv). Ma, in realtà, nel suo metodo di giudizio non c’era niente di più lontano dal recitare, dal fingere o dall’inventare.

Come giudicava il giudice Scalia? Così: la legge – la Costituzione – va intrepretata secondo il significato che un cittadino medio gli avrebbe attribuito al tempo della sua entrata in vigore. Il punto centrale del suo metodo cosiddetto originalista o testualista è il rifiuto che il significato delle parole muti con il tempo: questo può accadere solo ed esclusivamente a seguito di una espressa modifica legislativa. Il suo metodo di giudizio si contrappone a quello di quei giudici che, secondo lui, non applicano la legge per come è, ma per come vorrebbero che fosse, che si arrogano il potere di voler riscrivere o addirittura creare la legge.

La sua “ricetta” originalista ricorda un po’ la filosofia dei cuochi che si attengono umilmente alle ricette tradizionali, niente fusion o contaminazioni, e che sono, come Scalia, a seconda dei punti di vista, passatisti o rigorosi: si osa questo paragone perché Scalia amava molto la buona cucina, ed in particolare la pizza. Ma la pizza era solo ed esclusivamente la pizza di quella precisa pizzeria (AV Ristorante a Washington D.C.): neppure a tavola ammetteva interpretazioni!

Il metodo originalista di Scalia, del diritto secondo la legge, va di pari passo con il suo rigoroso sostegno della due process clause ossia di un processo, a garanzia dei diritti, secondo la legge. Lo Stato, dice la Costituzione americana, non può privare qualsiasi persona della vita, della libertà e della proprietà senza un due process cioè un processo nelle forme della legge. Scalia rigetta fermamente e coerentemente, secondo il suo punto di vista, l’idea che la lista dei diritti che vanno garantiti dal legittimo processo, vita, libertà e proprietà, possa essere estesa ad un’infinita gamma di diritti secondo, invece, l’opposta teoria del substantive due process, elaborata da altri giudici della Corte Suprema, e che potremmo azzardare di tradurre processo che legittima i diritti sostanziali.

Questa teoria, tanto avversata da Scalia, permette ai giudici di elaborare diritti non espressamente scritti nella Costituzione, ma adeguati al mutare dei tempi e della società. Per Scalia, invece, non può che trattarsi di diritti basati su convinzioni od opinioni dei giudici stessi. Se l’uomo Scalia ha professato apertamente una fede cattolica integerrima ed un conservatorismo sociale da padre di nove figli, il giudice Scalia non ha mai minimamente ceduto al fascino del diritto naturale, appunto di un diritto non scritto, seppure parte del patrimonio etico, razionale o religioso di ogni individuo e di ogni popolo.

Il suo approccio è squisitamente positivista: il diritto è un prodotto storico che promana dalla volontà scritta del legislatore, voce della volontà del popolo, unico artefice e responsabile della determinazione dei diritti e dei mutamenti sociali che ne conseguono. “I giudici applicano le leggi non le creano (…) Se fosse così sarei un re, ma io non sono un re!”. Lo disse relativamente al fatto che la sua lettura della Costituzione gli impedì di mandare in galera (come forse un po’ gli sarebbe piaciuto…) quei tipi strambi, in sandali, abiti stracciati e barbe incolte che bruciavano la bandiera americana per protesta, ma la cui libertà di espressione difese, invece, strenuamente, in una celebre sentenza (il cosiddetto Flag burning case).

Fedele al dettato costituzionale sulla libertà di parola e stretto nei limiti del suo potere di giudice, la netta separazione dei poteri è per Scalia cardine della libertà individuale, diga indispensabile a difesa dalle esondazioni dei singoli poteri dello Stato. Antonin Scalia, con il suo operato, ha costantemente mantenuto viva la ripartizione sia dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sia della responsabilità tra elettori, eletti e magistrati.

Si può dissentire, e si è ampiamente dissentito, spesso a ragione, dalle sue opinions, dalle sue sentenze, dal suo metodo. Basti pensare, oggi, alla forte ed ampia disapprovazione per la recente sentenza Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization, indubitabilmente figlia del metodo Scalia, che, dunque, tanto ha influenzato il diritto ed i giudici americani, anche di estrazioni culturali diverse. Questa sentenza ha ribaltato la celeberrima Roe vs Wade mediante la quale la Corte Suprema aveva sancito la garanzia costituzionale del diritto all’aborto, sentenza che Scalia aveva sempre contestato, sostenendo che la Costituzione americana letteralmente nulla dice sull’aborto e che il diritto all’aborto è stato creato dai giudici proprio sulla base della teoria del substantive due process, tanto invisa a Scalia.

Sull’aborto, dice il giudice Scalia, si devono esprimere gli elettori dei singoli stati, devono compiere la loro scelta democratica. In uno speech nel quale spiegava come il ricorso al diritto naturale sia incompatibile con un sistema democratico, disse: “Non ci si può sottrarre al dettato della legge. Questo condurrà ad un mondo perfetto? Certo che no: alcune leggi sono stupide ed alcune malvagie; ciò però condurrà a un mondo migliore di quello in cui i giudici sono liberi di applicare la loro idea di diritto naturale“.

Pensiamo, per un momento, a quando la grande maggioranza degli italiani decise a favore dell’aborto e del divorzio. Si trattava di diritti considerati, nel bene e nel male, rivoluzionari per la società italiana del tempo, ma che furono sanciti dalla legge proprio secondo gli intendimenti di Scalia, cioè mediante un grande e lungo dibattito politico, lo scontro di idee nelle piazze, nelle case, nelle scuole, il diritto visse nei cuori e nelle menti dei cittadini: in altre parole vi fu una straordinaria partecipazione democratica.

Antonin Scalia aveva ragione: una legge che sancisca un diritto, approvata sulla base di un vasto consenso e dibattuta dall’elettorato dentro ed anche fuori dalle aule parlamentari, frutto di una scelta autenticamente democratica, ci condurrà certamente verso un mondo, non perfetto, ma migliore! E durerà nel tempo. In uno dei suoi ultimi e più appassionati dissent Antonin Scalia affermò: “Permettere che una questione politica sia considerata e risolta da un gruppo ristretto, aristocratico, di nove persone (la Corte Suprema) significa violare il principio: no social transformation without rapresentation”. E, come spesso amava ricordare: “I can’t be a consensus builder”. Spesso il Giudice Scalia si è ritrovato isolato nel cercare di tutelare il metodo democratico come miglior strumento per affermare i diritti. Le decisioni su questioni fondamentali di una società prese dalle corti ma che passano sopra le teste dei cittadini sono pericolose, perché possono alimentare derive antidemocratiche, spesso pilotate o cavalcate da una politica opportunista, scaltra e guascona.

Il grande merito del libro di Giuseppe Portonera non è solo quello di averci aiutato a comprendere il metodo, le ragioni ed anche i torti di uno dei giudici più famosi al mondo ma, soprattutto, di averci permesso di conoscere una voce alta a difesa della democrazia, offrendoci utili strumenti per guardare con più rigore e spirito critico al linguaggio delle nostre leggi, alle interpretazioni dei nostri giudici, alla condizione dello stato di diritto ed allo stato della nostra democrazia.

P.S. Se si è perdonato l’accostamento iniziale tra Scalia e Sorvino, in conclusione, si vorrà permettere il riferimento ad una curiosa coincidenza: nel romanzo di Leonardo Sciascia A porte aperte (da cui fu tratto un bellissimo film diretto da Gianni Amelio) caso vuole che si chiami Scalia l’assassino reo confesso che chiede di essere giustiziato per le vie brevi secondo i metodi della dittatura fascista. Ma il giudice Vito Di Francesco (uno straordinario Gian Maria Volontè) lotta contro tutto e tutti per garantirgli il giusto processo secondo la legge, quel due process tanto caro a Scalia giudice. Tra l’incitazione al giudizio sommario della piazza e dello stesso Scalia omicida e la garanzia di un processo secondo la legge, il giudice di Sciascia non ebbe dubbi e, certamente, non ne avrebbe avuti neppure il giudice Scalia.

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