Amarcord liberista
Colin Robinson, autore di un recente libro su Arthur Seldon, suo predecessore come Editorial Director dell’Institute of Economic Affairs di Londra, ha scritto un interessante articolo sull’ultimo Spectator, sull’importanza di Seldon e in generale dell’IEA, nell’Inghilterra anni Sessanta-Settanta. Per gli appassionati del tema, sono cose abbastanza note, ma trovo molto interessante, ancorché amaro, questo commento di Robinson:
‘Think tanks’ have proliferated in the last 30 years. But there is no ferment of ideas comparable to that in the late 1970s. The newer think tanks, often associated with political parties, accept the prevailing economic and political consensus and propose marginal changes, invariably involving more government spending and more government intervention. Sometimes they claim to be searching for a ‘big idea’. They bear no resemblance to the IEA of Seldon and Harris, which wanted to overturn the consensus, not reinforce it. Moreover, Harris and Seldon were not in search of a big idea. They already knew, when they started work at the IEA, what that idea was — a return to market liberalism. Their mission, which they accomplished, was to explain how that goal could be achieved by a reforming government which wished to leave people freer to make their own choices.
Sadly, there is no Seldon now. But, even if Arthur were still here, would his ideas be heeded, as they were in the late 1970s? Regrettably, that period now seems like an isolated, atypical episode when British politicians were seeking ideas and were willing to accept a set of principles as a basis for action.
C’è di che riflettere, per noialtri. Chi si occupa di politica culturale tende ad avere una visione troppo ottimistica o della politica (spieghiamo le cose ai policy maker: capiranno!) o dell’opinione pubblica (convinciamo la maggioranza, i decisori si adegueranno). C’è una idea di causa-effetto molto chiara, ben oltre le soglie accettabile di ingenuità. Un po’ è un legato illuminista, un po’ è il ricordo di alcune esperienza di successo, nelle quali le idee hanno orientato il corso delle scelte pubbliche. In UK le storie gemelle della Fabian Society e dell’Institute of Economic Affairs. Da noi, a loro modo, le strategie di marca gramsciana che hanno spinto in quella direzione chi voleva penetrare oltre le trincee della società civile. In che misura il mondo è lo stesso e in che misura è cambiato? Quelle tattiche hanno ancora un senso? Basta cambiare i mezzi (dagli Hobart Papers dell’IEA all’alluvione di papers su Internet), o forse la fiducia nel “potere delle idee” è solo un pensiero autoconsolatorio degli intellettuali, cui piace la sensazione di essere al centro del mondo? E ancora, battersi sul terreno di gioco dell’opinione pubblica produce risultati, oppure ha avuto casualmente senso solo in un momento storico nel quale c’era una classe politica a tal punto assieme alfabetizzata e sfiduciata nell’ideologia allora dominante, da essere pronta ad assorbire le idee di qualche altro “scribacchino defunto”? Sono tutte domande che devono tormentare chi spera nel “proselitismo liberista”, ma non può accontentarsi di spolverare i trofei di altre battaglie.