Alla ricerca del vaccino
Il COVID-19 ci sta mettendo tutti a dura prova. Si avverte un diffuso bisogno di sperare che si torni presto alla normalità e a godere di tanti benefici che ci eravamo abituati a dare per scontati: poter viaggiare facilmente da un paese a un altro, andare a godersi una cena con gli amici, essere liberi di uscire di casa senza timore di trasmettere o contrarre il virus, di dover pagare una multa o sentirsi stigmatizzati.
Molti ripongono le proprie speranze nello sviluppo di un vaccino che ci consenta in breve tempo di centrare l’obiettivo dell’immunità di gregge.
Stando a quanto riportato sulla rivista Nature, solo pochi giorni fa si contavano 115 progetti di vaccino, dei quali 73 erano già a una fase esplorativa di sperimentazione preclinica e 5 in fase di sperimentazione clinica (si veda qui e qui). Negli ultimi giorni ci ha pensato Piero Di Lorenzo, amministratore delegato di Advent-Irbm, a ravvivare queste speranze dichiarando che da settembre potrebbero cominciare le prime vaccinazioni, ammesso che i risultati dei test clinici siano positivi (qui la recente intervista a Radio 1). Advent-Irbm è una società di produzione a contratto dell’industria farmaceutica che in condivisione con lo Jenner Institute della Oxford University dovrebbe far partire i test clinici già a fine aprile. L’istituto della Oxford University prende il nome da Edward Jenner, uno tra i primi e più accaniti promotori di vaccini, a cui venne inoculata una forma lieve di vaiolo nel 1757, all’età di otto anni, che gli salvò la vita dalle epidemie successive. Le referenze sono ottime e l’istituto vanta una lunga esperienza alle prese con i virus della famiglia del COVID-19. Sono già stati reclutati 550 volontari tra i 18 e i 55 anni per le sperimentazioni cosiddette “di fase 3”, ovvero le ultime necessarie. Qualora i risultati dei test fossero positivi, a settembre potrebbero già essere pronti i vaccini per alcune categorie specifiche come gli operatori sanitari e le forze dell’ordine, da somministrare in cosiddetta “modalità compassionevole”, ovvero gratuitamente.
Ce lo auguriamo tutti. Nondimeno, innanzitutto non è scontato che le sperimentazioni vadano bene come si spera. Inoltre, anche nel caso in cui questo dovesse accadere, dobbiamo interrogarci sull’orizzonte temporale di riferimento. Per prima cosa c’è da considerare che per la commercializzazione del vaccino, e quindi per il suo utilizzo su larga scala, il processo richiederà ancora diversi mesi, dal momento che per questa sarà necessaria al minimo anche l’Autorizzazione all’Immissione in Commercio (AIC) rilasciata dalla FDA (Food and Drug Administration) negli Stati Uniti e dall’EMA (European Medicines Agency) in Europa. Se i tempi dovessero rimanere quelli soliti, nella migliore delle ipotesi si tratterebbe di almeno altri 7 mesi di attesa. In secondo luogo, produrre centinaia di milioni di dosi di vaccino non è un’operazione che può considerarsi banale. Lo stesso Di Lorenzo, nell’intervista già richiamata a Radio 1, ha dichiarato che per vaccinare la popolazione ci vorranno anni. Questo spiegherebbe forse anche perché i test vengono fatti su persone di età compresa tra i 18 e i 55 anni, pur sapendo che le persone che subiscono le conseguenze più gravi del virus sono gli over 70: l’obiettivo del vaccino non è risolvere l’emergenza, ma rendere immuni le generazioni future.
Al limite, una riduzione dei tempi di commercializzazione potrebbe realizzarsi grazie alle aziende farmaceutiche nel caso in cui queste decidessero di cominciare a produrre il vaccino prima ancora di avere i risultati definitivi delle sperimentazioni. Per le aziende farmaceutiche produttrici, ciò significherebbe farsi carico del rischio di attivare il processo produttivo per un vaccino non utilizzabile. Se è vero che il rischio di sprecare risorse è insito in ogni iniziativa imprenditoriale privata, è pur vero che un’iniziativa di questo tipo sarebbe più unica che rara nella storia del mercato farmaceutico. Le attuali circostanze forse rendono plausibili operazioni inusuali, ma è necessario riflettere sul clima e la reputazione che fino all’altro ieri avvolgevano le aziende farmaceutiche. Nell’immaginario collettivo purtroppo è ancora diffusa l’idea per cui queste imprese lucrerebbero sulla salute dei pazienti (come riportato da uno studio del Censis: si veda qui un riassunto), talvolta anche per colpa di una certa classe dirigente (per citare un esempio, solo un anno fa il Direttore Generale Aifa Li Bassi accusava l’industria di approfittarsi della scarsa trasparenza sui prezzi: si veda qui un’analisi) e dei media sempre più attenti a riportare gli scandali piuttosto che tutto il resto (quanti hanno letto, per esempio, che La Roche ha deciso di fornire alle Regioni gratuitamente il farmaco per il trattamento dell’artrite reumatoide che sembra avere effetti positivi nell’alleviare le polmoniti da COVID-19? Si veda qui). Un effetto collaterale positivo di questa pandemia potrebbe forse essere quello di ripristinare una informazione e opinione pubblica più equilibrata sul ruolo dell’imprenditoria farmaceutica, i suoi limiti ma anche le sue potenzialità.
Ad ogni modo, non ci si può aspettare che un vaccino ci riporti a una situazione normale nel giro di poco tempo. Chi auspica un cambio repentino della situazione temo debba riporre le proprie speranze altrove, per esempio in una cura, o forse rassegnarsi al fatto che con questo virus dovremo imparare a convivere.
Nondimeno, trovare un vaccino efficace sarebbe un risultato eccezionale. A dispetto della reputazione che hanno (avevano?) in certa parte dell’opinione pubblica, i vaccini rappresentano l’espressione più tangibile del noto principio secondo cui “prevenire è meglio che curare”. Perché sia meglio prevenire appare chiaro oggi più che in passato, dal momento che vediamo le conseguenze e i disagi derivanti dal diffondersi di un virus che per alcuni può anche essere letale. In Italia ogni anno spendiamo per i vaccini meno di un miliardo di euro, a fronte di una spesa pubblica farmaceutica che si aggira intorno ai 19 miliardi. Enormi benefici a fronte di un costo relativamente contenuto, si direbbe.
Non è un caso che in queste settimane si siano scatenati accesi dibattiti, anche tra gli esperti, per velocizzare il processo che porterebbe alla commercializzazione di un vaccino contro il COVID-19. Che la questione sia particolarmente rilevante e urgente lo testimonia anche il fatto che alcuni studiosi di Rutgers, Harvard, e Londra, hanno avanzato la proposta di condurre un cosiddetto human challenge study per velocizzare le fasi di sperimentazione clinica. In uno studio di questo tipo, la fase 3 convenzionale (come quella prevista dalle sperimentazioni di Advent-Irbm) viene sostituita da una sperimentazione in cui non solo viene assegnato casualmente il vaccino a un gruppo di trattamento, lasciando il placebo al gruppo di controllo, ma tutti i partecipanti vengono anche esposti al virus a un livello tale che in assenza del vaccino sarebbero contagiati. Confrontando i risultati del contagio sul gruppo di trattamento (vaccinati) e quello di controllo (placebo) si capirà in fretta se il vaccino sarà stato efficace oppure no. In queste condizioni, fin dal principio i ricercatori si aspettano che alcuni partecipanti moriranno. Nel caso del COVID-19, per esempio, il tasso di mortalità del virus sappiamo essere compreso tra il 3% e il 10%, a seconda dei paesi. Tra i partecipanti (ammesso che si tratti di un campione rappresentativo) si osserverà in aspettativa un tasso di decessi compreso tra il 3% e il 10%, almeno nel gruppo di controllo a cui non è stato somministrato il vaccino.
Un disegno delle sperimentazioni di questo tipo solleva dilemmi e questioni molto delicate. Da un lato c’è chi dice che non tutto è lecito in nome della scienza, e che le fasce più deboli della popolazione, ovvero quelle più propense a partecipare a studi di questo tipo, vanno tutelate e non possono essere esposte a rischi così elevati; dall’altro c’è chi sostiene che, pur di trovare il vaccino, potrebbe essere accettabile anche qualche sacrificio in termini di vite umane e che un libero partecipante a uno studio di questo tipo, consapevole di rischiare la propria vita, non sia molto diverso da un medico che rischia la propria vita frequentando pazienti affetti dal COVID-19. Premesso che è poco interessante il fatto che in generale io prediliga la prima posizione, ciò che appare invece assai interessante è osservare come ciò che fino a ieri veniva dato per scontato, oggi, di fronte alla paura e all’incertezza, sia messo in discussione. Rispetto a questo tipo di sperimentazioni, l’Organizzazione Mondiale della Sanità fino a oggi ha ritenuto accettabili solo quelle relative a malattie che siano facilmente identificabili e per le quali siano già esistenti trattamenti efficaci che possono essere somministrati a un certo punto del processo così da eliminare la mortalità. Ma non è chiaramente questo il caso del COVID-19. Eppure, studiosi riconosciuti che stanno in istituzioni importanti come Harvard, Rutgers, e alla London School of Hygiene, oggi propongono che si faccia uno human challenge study per “ridurre il fardello globale della mortalità e della morbosità relative al corona virus”. Se anche all’interno della comunità scientifica pratiche consolidate di buona condotta vengono messe in discussione in nome del ‘bene superiore’, è difficile credere che si possa tornare a una normalità intesa come la intendevamo fino al mese scorso. C’è solo da sperare che la nuova normalità non si riveli peggio della vecchia. Concludendo, è improbabile che avremo un vaccino che ci consentirà di raggiungere l’obiettivo dell’immunità di gregge in tempi brevi. Anche qualora le sperimentazioni avviate da Advent-Irbm e Jenner Institute andassero bene, e anche qualora si cominciassero a produrre vaccini prima ancora di sapere se questi siano efficaci, ci vorrà ancora tempo. Nel caso dello Human Challenge Study, parrebbe improbabile che questo verrà ritenuto accettabile nell’immediato futuro, almeno non nelle democrazie occidentali. Trovare un vaccino renderà più facile la vita delle generazioni future e speriamo che questo accada più in fretta possibile. Nel frattempo però concentriamoci su come convivere col virus e, in attesa della prevenzione, cerchiamo di capire come curare chi ne è stato colpito.