Alitalia: basta falò pubblici di risorse, non resta che liquidarla
Ve l’avevamo detto, la scorsa settimana. Sulle grandi discontinuità d’impresa, quando si rendono necessarie ristrutturazioni dolorose, ormai i referendum tra lavoratori si convocano per rimarcare la crisi verticale di rappresentanza dei sindacati. E così è stato in Alitalia. I no hanno prevalso. Ad aver chiesto il no esplicitamente sono stati alcuni sindacati di base come l’Usb e l’Anp, che ai dipendenti Alitalia hanno detto che era meglio vendere cara la pelle, dire no al taglio delle retribuzioni per il personale navigante, agli esuberi e alle mancate conferme dei contratti a tempo, pattuiti nell’intesa sottoposta al voto. Tanto, è stato l’argomento, si sa che è già partita la trattativa riservata con Lufthansa, che da Etihad recentemente ha assunto una quota anche di Air Berlin, e a quel punto l’arrivo dei tedeschi avrebbe significato nuovi tagli. Un ragionamento suicida, visto che così i tagli diventano immediati, con la discontinuità aziendale.
Qual è il sottinteso di questa campagna per il no? Semplice. Che sia lo Stato, a tornare ad accollarsi Alitalia, facendo marcia indietro sulla decisione di cederla ai privati nel 2008. I ministri Delrio e Calenda hanno reiteratamente detto che non esiste alcuna prospettiva di rinazionalizzazione. E che, su richiesta dei soci che non ricapitalizzano, al governo non resta che rispondere positivamente alla richiesta inevitabile di amministrazione straordinaria speciale, procedendo, secondo la legge Marzano modificata ai tempi di Parmalat, alla nomina di uno o più commissari.
Per il governo Gentiloni, non bastassero i problemi che ha, si tratta di una pesante grana imprevista. La Parmalat era gonfia di liquidità, strappata da Enrico Bondi alle banche che ne avevano impropriamente piazzato i bonds. Alitalia non ha più cassa, ne brucia ogni giorno, si calcolano circa 220 milioni di spese al mese tra personale, lease aerei, diritti traffico, manutenzione e carburante Ha un pesante debito, diciamo oltre un miliardo anche se non abbiamo il bilancio 2016 per dirlo con precisione. Senza cassa, il piano che deve stilare il commissario da sottoporre a creditori e potenziali acquirenti implica un coinvolgimento della finanza pubblica obbligato, per sei mesi serve una cifra nell’ordine del miliardo . Solo che, insediato il commissario, a quel punto partirà ovviamente il coro dei sindacati da una parte, e di vaste aree della politica dall’altra, contro ogni pretesa “svendita” della compagnia: tanto più se la trattativa fosse con l’unica davvero interessata ad aggregarla, cioè i tedeschi di Lufthansa che in questi anni hanno annesso compagnie in Svizzera, Austria e Belgio. (apro una parentesi: fonti di Berlino negano recisamente al momento ogni propensione di Lufthansa, a cui ancora brucia il fallimento del progetto su Malpensa di 3 anni fa:vediamo se sono solo schermaglie..). Per molti politici, l’avvicinarsi delle elezioni è un ideale bis del 2008: anche allora si decise in campagna elettorale il no alla cessione dallo Stato ad Air France, per dare Alitalia invece ai “capitani coraggiosi” italiani. Col bel risultato che ai 7,4 miliardi di perdite dell’Alitalia pubblica calcolati da Mediobanca abbiamo sommato in questi anni di Alitalia privata altri 4,5 miliardi pubblici tra oneri statali del fallimento, CIGS straordinaria (per 7 anni!) agli esuberi di allora, investimento bruciato di Poste, oneri aggiuntivi sui biglietti pagati da tutti i passeggeri, a cui sommare altri 1,4 miliardi di minori introiti IVA.
L’alternativa, se il governo Gentiloni reggerà alla pressione, è che il commissario avvii invece la liquidazione, con due anni di NASPI per il personale, gli asset della compagnia ceduti tramite spezzatino, e le rotte riaggiudicate dall’autorità di regolazione. A rigor di logica dovrebbe essere l’ipotesi più probabile: anche perché né Lufthansa né altri comprebbero a maggior prezzo e con tanti debiti asset che, dalla liquidazione, possono rilevare ameno.
La differenza sarà esercitata da imponenti pressioni politico-sindacali. Che deliberatamente ignora la questione essenziale. cioè che l’Alitalia attuale non può reggere, e figuriamoci se ridimensionata, alla concorrenza duplice: delle low cost e delle grandi compagnie che ormai hanno sia low cost che vettori tradizionali a maggior redditività nel lungo raggio. Tanto per fare qualche numero, nel 2005 Ryanair aveva 33,4 milioni di passeggeri e Alitalia 30. Dieci anni dopo, Ryanair ne aveva 107,7 e l’anno scorso ha superato anche Lufthansa come primo vettore europeo, superando i 120 milioni di passeggeri. Alitalia è scesa a 22,7 milioni, e copre a malapena il 18% del mercato passeggeri italiano (il 40% in valore, stante quanto fa pgaare i suoi biglietti..), mentre il mercato aereo italiano aumentava in un decennio del 135%, malgrado gli anni di crisi economica. Avendo Alitalia ricavi per chilometro-passeggero che in termini comparati, schiacciata com’è sul mercato domestico, non la reggono in piedi, malgrado costi che ormai – su questo i dipendenti hanno ragione – in termini comparati sono inferiori di un terzo a quelli di Air France e di un quarto rispetto a Lufthansa.
E’ presto per capire come davvero il governo gestirà questo disastro, per altro largamente annunciato visto che per anni è rimasto inascoltato chi ha tentato di dire che il piano dei privati, sia prima sia dopo Etihad, non stava in piedi. E infatti i soci e le banche hanno accumulato dal 2009 altri 3 miliardi di perdite. Ma due cose si possono dire, fuori dai denti.
La prima è che il no dei dipendenti è largamente figlio di sindacati e sindacatini che, nei decenni hanno continuato a istillare nei lavoratori della compagnia – malgrado le crisi reiterate e i tanti tagli già avvenuti – l’idea che alla fine si trattasse di una società pubblica, destinata in un modo o nell’altro a essere salvata. E’ purtroppo una dolorosa lezione: il mancato adattamento alle trasformazioni e alle sfide dell’ambiente in cui si vive è esattamente la ragione che nella storia porta all’estinzione di molte specie.
La seconda è che, di fronte all’ennesimo fallimento di Alitalia, la politica si ritrova a un bivio. Ha detto no decenni fa alla fusione con Klm, poi in due occasioni ha detto no ad Air France. Si è accanita a dilapidare miliardi attraverso la gestione pubblica. Ne ha bruciati altri sostenendo troppo generosamente i privati. Ora l’alternativa è chiara. O la politica decide di ascoltare la voce di milioni di italiani che sono stufi di pagare di tasca propria per una compagnia il cui management – pubblico e privato – si è rivelato incapace di reggere alla sfida di un mercato che cresceva malgrado la crisi mondiale. E allora al governo non resta che intraprendere in fretta le procedure concorsuali, dritti fino alla liquidazione. E gà tutto questo avrà un ennesimo costo pubblico, non piccolo. L’alternativa però è follia pura: decidere di mettere ancor più pesantemente la mano nelle tasche dei contribuenti,ma senza alcuna prospettive di guadagnare per anni e anni, vista la flotta a disposizione e i margini inesistenti. Beccandosi un’infrazione europea sicura, per aiuti di Stato. Sfidando non solo la logica, ma anche il voto contrario alle prossime politiche di chi è da anni arcistufo di pagare.per la follia economica che Alitalia è purtroppo diventata.
E’ giunto il tempo di dichiare il fallimento!
Il No al referendum è il chiaro segno che ormai i lavoratori di Alitalia, come tutti gli Italiani, sono “drogati” da decenni e decenni di mala politica, che li ha abituati al “piano B”, salvataggio a debito a spese di Pantalone.
Grazie a questo hanno buttato a mare un piano che, seppur disperato, era meglio che nulla.
E’ assolutamente necessario che vengano trattati come tutti gli italiani che hanno perso il lavoro in questi anni: due anni di mobilità e poi a casa, senz’altro sussidio.
Grazie Oscar