Agricoltura, trasporti e biodiversità: la nuova frontiera del protezionismo commerciale
Alcuni commenti al mio ultimo post su Chicago Blog mi inducono a tornare su un argomento, quello dell’agricoltura di prossimità e della sovranità alimentare, intorno al quale mi sembra che circolino molti luoghi comuni e ben radicati. In particolare un lettore scriveva che è giusto sostenere l’agricoltura locale, o nazionale, per alcune ragioni:
- perchè è buona e salutare e va tutelata per la salute di tutti (anche la vostra)
- perchè si aiuta la produzione italiana, e tutti i paesi proteggono la propria produzione (anche la Germania che va tanto di moda solo perchè spende un po meno degli altri)
- perchè l’ortofrutta non è un prodotto normale, portarla in giro per il mondo ne sminuisce la qualità
- la biodiversità è un patrimonio inestimabile della umanità, purtroppo certe cose non hanno prezzo ed il mercato non funziona per loro
Mi sembra evidente che i primi due punti tendano ad annullarsi a vicenda: la nostra produzione è migliore (non solo più buona, addirittura più salutare!) di quella proveniente da altri paesi, ed è giusto tutelarla, ma se lo fanno, per la stessa ragione, anche altri paesi (il lettore cita la Germania, non avendo chiaro che la politica agricola è europea), è chiaro che qualcuno la sta sparando grossa: o noi, o i tedeschi, o più probabilmente tutti e due. Come se un attore in tournée, presentandosi sul palcoscenico di Parma, esordisse dicendo: “siete un pubblico fantastico, il più bel pubblico che abbia mai incontrato, come dicevo proprio ieri a Reggio Emilia…”
La realtà è, ovviamente, diversa. Nessuna regione può vantarsi di avere una produzione migliore, fatta solo di eccellenze. Avrà ottimi prodotti di un tipo, e pessimi prodotti di un altro tipo, e questo grazie alle caratteristiche del terreno e del clima. Se una regione pretende di soddisfare il proprio fabbisogno alimentare esclusivamente con prodotti provenienti dal suo territorio non tutela affatto la salute dei propri cittadini. Tutela soltanto (è più chiaro al punto 2 citato dal nostro lettore) i produttori locali. Anzi, è più corretto dire che “tenta” di tutelarli, ma in realtà sono proprio loro a venire danneggiati nel medio e lungo periodo, in quanto si impone loro di lavorare esclusivamente per un mercato ristretto, mentre potrebbero fare affari migliori puntando sui prodotti “vocati” del proprio territorio e aprendosi a mercati più ampi.
Tentare di produrrre i prodotti sbagliati vicino casa rende meno e costa di più: ci vorranno più fertilizzanti, più acqua, più fitofarmaci, e soprattutto più terra: Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu citavano, in un loro recente articolo, il caso delle fragole: un ettaro in California ne produce 50 tonnellate, mentre la stessa superficie in Ontario non ne rende più di 10. Quindi se in Ontario volessero produrre una quantità “californiana” di fragole, dovrebbero procurarsi, probabilmente strappandola ad ecosistemi come le praterie o le foreste, una superficie agricola cinque volte superiore a quella di cui oggi dispongono.
E questa considerazione ci porta direttamente agli altri due punti citati dal nostro lettore, quello della qualità dei prodotti che vengono da lontano, e, più in generale, ai problemi legati al trasporto su lunghe distanze, e quello della biodiversità, espressione alla quale, prima di attribuire un valore (“patrimonio inestimabile dell’umanità”), bisognerebbe cercare di attribuire un significato.
Oggi le merci non vengono più trasportate da una parte all’altra del mondo con i clippers a vela, anche se già i trasporti via clipper permettevano ai molini inglesi di panificare con il grano australiano. Se è vero che i prodotti ortofrutticoli tendono a perdere qualità se non vengono consumati freschi, è altrettanto vero che la qualità di un prodotto ortofrutticolo fuori stagione è minore di quella di un prodotto di stagione: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.
La biodiversità è un concetto che va molto di moda negli ultimi tempi, ma presumo che non tutti coloro che ne parlano con tanta facilità non sarebbero in grado di chiarirne il significato. Innanzitutto, dato che parliamo di agricoltura, sarebbe opportuno specificare se ci si riferisce alla biodiversità o alla biodiversità agricola: sono due cose diverse, spesso la salvaguardia di una contribuisce all’impoverimento dell’altra, ma nessuna delle due viene danneggiata dall’intensificazione agricola e dall’efficienza produttiva.
Per biodiversità si intende la varietà di specie, animali o vegetali, che abitano un dato ecosistema. Chiaramente lo sviluppo dell’agricoltura tende a impoverirla, dato che sostituisce ecosistemi complessi con superfici su cui cresce solo una varietà vegetale. Ma, come spiegato prima, consumare solo prodotti provenienti da territori vicini significa doversi procurare più terra coltivabile: l’agricoltura intensiva è meno dannosa per la biodiversità rispetto all’agricoltura di prossimità, tanto in voga tra gli ambientalisti.
La biodiversità agricola invece è la varietà di specie, animali e vegetali, che coltiviamo o alleviamo per soddisfare il nostro fabbisogno di cibo, e qui il discorso si fa più complesso. Tutte le varietà che coltiviamo sono il frutto di una selezione genetica operata dall’uomo nel corso di millenni. Per questo la biodiversità agricola è in costante evoluzione, adattandosi in ogni epoca ai bisogni dell’umanità. Ma questo non significa che oggi sia meno ricca che in passato: se a Pachino oggi si può coltivare il celebre pomodorino a grappolo non lo si deve alla faticosa opera di recupero di antiche varietà da parte degli agricoltori locali, ma al lavoro di una multinazionale biotech israeliana che ha “inventato” quel tipo di pianta, individuando poi nel territorio della Sicilia sudorientale il territorio ideale per la sua coltivazione. Altrimenti anche lì, come ovunque, coltiverebbero ancora pomodori insalatari a buccia spessa.
Il caso di Pachino dimostra proprio come la ricerca dell’efficienza (la varietà giusta coltivata nella zona giusta) possa arricchire sia la biodiversità agricola che le tasche degli agricoltori, venendo incontro ai bisogni del mercato prima che a quelli dei eurocrati agricoli.
C’è un’altro aspetto che viene spesso citato in difesa dell’agricoltura di prossimità: i trasporti su lunga distanza, si dice, sarebbero all’origine dell’emissione di grandi quantità di CO2 che potremmo risparmiare consumando cibo prodotto più vicino a noi. Questa considerazione è però completamente sbagliata, perché prescinde dal fatto che l’energia impiegata nel trasporto su lunghe distanze è venti volte inferiore a quella impiegata per le fasi della produzione. Quindi si risparmia molta più energia, e di conseguenza si produce meno CO2, producendo fragole in California, per usare l’esempio precedente, e trasportandole in Ontario, piuttosto che pretendendo di fare tutto vicino casa. Se si volesse discutere seriamente dell’abbattimento delle emissioni legate alla produzione di cibo, il primo passo dovrebbe essere la rimozione di qualsiasi tipo di barriera commerciale.
Per approfondire questo tema consiglio vivamente il paper dal titolo “Yes We Have No Bananas: A Critique of the ‘Food Miles’ Perspective” di Pierre Desrochers e Hiroko Shimizu, per Mercatus Center at George Mason University.
Ottimo pezzo.
Mi permetto di aggiungere riguardo il punto 3: la qualità di un prodotto proveniente da luoghi distanti forse è inferiore; ma chiaramente pure il prezzo è inferiore, se no non ci sarebbe importanzione. Quindi:
– o la gente al posto del palato ha un paracarro (come scritto sul Vernacoliere “non sa distinguere un Tocai da una tanica di benzina) e ingoia robaccia sempre e comunque (nel qual caso il punto 1 non ha significato: non esiste niente che sia “buono”)
– oppure semplicemente DECIDE di barattare una minor qualità con un minor prezzo considerando lo scambio vantaggioso, pertanto non vedo perché chicchesia possa arrogarsi il diritto di decidere al posto loro.
Quindi o la “produzione italiana” si decide a creare un maggior valore-qualità che meriti la maggior spesa da parte dei consumatori, o cambi settore con vantaggio di tutti.
Ottimo intervento cui vorrei aggiungere che un buon motivo per avere una produzione nazionale di alimenti è di natura strategica.
Chi scrive a suo tempo è stato ufficiale di marina e sa che con qualche decina di mine ben messe è possibile strangolare per settimane se non mesi i porti italiani e i principali passaggi obbligati, in primis stretto di messina bocche di bonifacio e canale d’otranto, con conseguenze difficilmente immaginabili anzitutto su alimenti e trasporti.
Si ricorda qualcuno cosa fece l’iran con un po’ di mine nello stretto di ormuz? ed erano, quelle, basate su una tecnologia d’anteguerra…
Sono sconvolto da come poche righe scritte bene possano sconvolgere un paradigma, il mio, basato solo su luoghi comuni ben radicati.
Complimenti e viva il confronto alla “Chicago”
Buone cose
Christian
bell’articolo. io ci aggiungerei anche gli OGM. la maggior parte degli ambientalisti non si rende conto che dicendo no agli OGM dicono si ad antibiotici, erbicidi, tossine di vario tipo. Secondo loro bisognerebbe tornare all’agricoltura di 100 anni fa, senza però pensare che 100 anni fa al mondo eravamo solo un paio di miliardi, ed ora siamo 6/7 che dobbiamo mangiare….
Oppure chi sta in Ontario mangia 1 fragola anzichè 5 e si consola con un qualche frittella di sciroppo di acero…
@giuseppe de rosa
Questo è un argomento a favore dei dragamine e della marina militare non del protezionismo agricolo…
@Leonardo
“Tendiamo” ad avere i prodotti migliori per il principio di Alchian. Spiego meglio: nella stessa gamma di prodotti, quelli migliori sono i primi a finire sparati sui mercati internazionali mentre a livello locale si consumano le qualità inferiori. Ex. supponi che trasportare una bottiglia di vino da Pisa a Los Angeles abbia un costo unitario di trasporto di 10$. La conseguenza è che probabilmente che sul mercato di Los Angeles troverai una bottiglia di Sassicaia e non di Tavernello perché tra 150$ (prezzo a Bolgheri) e 160$ (prezzo a L.A.) la differenza è marginale, viceversa il Tavernello a Pisa costa 1$ mentre a L.A. costerebbe 11$, quindi finché il mercato non abbatte i costi di trasporto tendono a circolare i prodotti migliori. Anche per questo Marco Polo ha seguito la via della seta e non quella dei cenci rotti… 🙂
PS: secondo la logica del locale è bello a Colfiorito e dintorni, qualche centinaia di abitanti dovrebbero spararsi lenticchie dal primo gennaio al trentuno dicembre. Lenticchie a pranzo, lenticchie a cena, lenticchie col pomodoro, col salciccio, in brodo, nella zuppa.. Sai che palle…
Cito: quindi importare, nel periodo invernale, frutta proveniente dall’emisfero australe, e mandare laggiù la nostra frutta nella bella stagione, significa che i consumatori (di tutto il mondo) si troveranno nel piatto i prodotti migliori al prezzo migliore.
Per me è l’opposto: consumare frutta fuori stagione significa avere frutta di minor valore (il trasporto lontano ne sminuisce la freschezza e la salubrità, come scritto anche in questo blog) ad un prezzo sicuramente non inferiore al produrre in loco, e per me se non si può produrre in loco meglio adattarsi ai prodotti locali (tanto secondo lei sig. Masini tutti i paesi hanno le loro succulente specialità).
A parte i miei gusti personali (fortemente italiani)perchè acquistare all’estero prodotti di minor qualità? Solo per il fascino dell’esotico?Comunque se a qualcuno piace l’esotico,e quindi mettono in pericolo le produzioni locali, perchè non proteggere i prodotti locali?Solo per un malinteso senso della efficenza? Allora perchè proteggere i libri medievali ad esempio, che si possono digitalizzare benissimo( è il primo esempio che mi viene in mente, ma esistono anche i parchi nazionali per proteggere luoghi naturali, che senso ha farlo, non è meglio metterli a reddito con dei bei resort)? (qui temo che molti risponderebbero di si)
Per quanto riguarda il pomodoro di Pachino, le credo sulla fiducia anche se mi sembra molto strano che un pomodoro che credo esista da diversi decenni sia stato introdotto in Sicilia (?) da una ditta israeliana(non pensavo che gli israeliani investissero in Sicilia).
Sottolineo però il fatto che la ricerca OGM può avere grosse ripercussioni: fa fare grossi profitti alle multinazionali a danno dei piccoli contadini, ma soprattutto è un rischio enorme, porto ad esempio DDT e amianto che hanno permesso grossi profitti ai privati e grossi costi che stiamo ancora pagando al pubblico. Chi ci garantisce che un certo prodotto OGM non rovini la capacità produttiva di un territorio per anni o decenni?
Per secoli siamo andati avanti senza toccare nell’intimo quello che la natura ha fatto nei millenni, ora abbiamo una specie di arma nucleare agricola, come le bombe nucleari io preferisco non usarla.
Meglio evitare rischi incerti (e grossi costi certi per il pubblico)che avere sempre più efficienza per i profitti di alcuni (pochi o tanti) privati
PS mi scuso se scrivo di getto e quindi do adito a qualche amichevole presa in giro ma il mio commento l’ho scritto molto tardi dopo una lunga e dura giornata di lavoro
PS la politica agricola è europea, ma la Germania, quando si tratta di difendere il proprio latte, non ha alcuna esitazione
Sempre che tutti abbiano regole simili (e analoghi controlli!) per produrre il cibo….
rileggendo con calma mi endo conto che il mio primo concetto non è molto chiaro: intendevo dire in sintesi che i prodotti locali del territorio (che possiamo far coincidere con una nazione grosso modo) sono sufficienti, nella maggior parte dei casi, a sfamare ed a soddisfare tutte le esigenze, come sempre è stato da secoli, secondo natura.
Alllo stesso prodotto coltivato fuori dal territorio preferisco sempre l’identico prodotto coltivato nel territorio, se non esiste l’identico prodotto nel territorio, ci sarà sicuramente un prodotto che può sopperire con le stesse virtù di qualità e maggiore freschezza.
Perchè muovere merci inutilmente per il profitto di multinazionali del settore? A Colfiorito sono sicuro che non si mangiano solo lenticchie!
Ottimo articolo ! A margine aggiungerei che:
– gli anti-ogm hanno qualche canceroso sulla coscienza: il mais non
ogm viene talvolta colpito da un fungo parassita che produce un
cancerogeno “naturale” terribile, ovviamente termostabile (cfr. il
blog di Dario Bressanini, articolista di “le scienze”);
– che dire della Lega che, prima protegge i suoi elettori agricoli, in
questo modo strozza ad es. le arance marocchine, e poi si lamenta
perchè i marocchini emigrano, anzichè cercare lavoro a casa
propria ? Poche idee, ma sbagliate.
Complimenti Masini, ottimo articolo, che secondo me ha l’unico difetto di proporre un approccio ideologico supportato da grandi capacità retoriche.
Personalmente sono per un approccio sanamente empirico che mi porta da alcune osservazioni:
1-Chiunque di noi ha fatto esperienza di prodotti locali superbi che non vengono esportati perché deperibili o perché non abbastanza redditizi. Saltando le organizzazioni ufficiali si mangiano arance dolcissime, formaggi strepitosi, salumi indimenticabili.
2-Le grandi piantagioni monoculturali non risulta abbiano portato ricchezza ai contadini, mentre sicuramente l’hanno concentrata nelle mani di chi controlla la commercializzazione del prodotto.
3-L’agricoltura serve a dar da mangiare alle persone e un reddito decoroso agli agricoltori. Che alcuni paesi africani abbiano problemi di disponibilità alimentare mi sembra fantascienza, e sicuramente gli agricoltori di quei paesi non potranno mai combattere ad armi pari con agricolture molto più evolute e con potenti organizzazioni globali.
4-Concordo con Giuseppe sulla strategicità della produzione agricola, non solo perché le situazioni cambiano e la disponibilità di cibo è una risorsa di base per qualsiasi paese ma anche perché il contadino protegge il territorio e lo fa bello. Il paesaggio italiano dipende per il 90% da un’agricoltura che, senza protezione, verrebbe spazzata via in pochissimi anni. Le colline toscane e la pianura padana sarebbero un ammasso di sterpaglie e invivibile: vogliamo questo?
5-E poi pensate a cosa avviene nella realtà e non a cosa prevedono le teorie.
il mio motto é
arance marocchine ai marocchini
arance siciliane agli italiani !!!
il mio motto é
arance marocchine ai marocchini
arance siciliane agli italiani !!!
siamo pieni di prodotti (anche che vengono dall’europa, come Spagna o Francia) di poca qualità e basso prezzo, ed abbiamo pochi prodotti italiani di qualità, proteggiamo l’agricoltura italiana perchè non competa sui prezzi, ma solo sulla qualità
Il mio motto invece è “ognuno compri ciò che preferisce, libertà di scelta”
ma evidentemente qualcuno preferisce che venga deciso da qualcun altro cosa deve mangiare (magari salutandolo pure col braccio teso o il pugno chiuso?)
comunque confermo, la storia del pachino è vera. è una creazione agricola israeliana (alla faccia della distruzione del territorio da parte di prodotti creati dall’uomo).
Proteggere una produzione non significa limitare la libertà di scelta, se qualcuno è veramente interessato a mangiare arance marocchine ( di cui dubito della qualità e della salubrità rispetto a quelle italiane) le può sempre comprare.
La varietà e qualità ortofrutticola italiana, come il turismo, è un bene inestimabile secondo le leggi del mercato, che merita un occhio di riguardo.
Ripeto la Germania ( e gli USA da sempre, anche prima di Obama) hanno protetto le proprie produzioni, credo che un motivo valido alla base ci sia, non è solo protezioni di interessi
@Riccardo
“La varietà e qualità ortofrutticola italiana, come il turismo, è un bene inestimabile secondo le leggi del mercato, che merita un occhio di riguardo.”
insomma questa varietà o è un bene inestimabile o ha un valore di mercato stimabile, tutto e il suo contrario perfavore no.
@Riccardo
domanda: come si protegge una produzione (una qualsiasi non solo agricola) senza limitare o impedire la concorrenza alla produzione stessa? per ritornarne alla questione senza impedire che io compri le arance marocchine e non quelle italiane?
Sarebbe bellissimo se invece di rimbambirsi con i libri sui templari, le chiavi su ponte milvio o le malefatte di berlusconi tantissimi italiani avessero letto l’ottimo PANE & BUGIE di Dario Bressanini (ed. Chiarelettere). Si leggerebbero molte meno stupidate sul potere taumaturgico, quasi, di certi cibi e di conseguenza sull’agricoltura. Sopratutto quella BIO, altra parola sacra per camuffare solo delle grandissime fregature.
ai tempi di mio nonno c’era il consumo locale, biologico, km0 ecc.. si chiamava autarchia e fece sparire “lussi” come caffè, pane, cotone.
la frutta si mangiava marcia perchè semplicemente bisognava accontentarsi di quello che c’era e non si poteva buttare via nulla. poi è venuta la chimica ad aumentare la produttività e infine i commerci internazionali ci hanno permesso una varietà enorme
allora se vogliamo sostenere certe idee dobbiamo comportarci in modo coerente e tornare a mangiare come i nostri nonni negli anni 30. il che è strano visto che i programmi di cucina in tv spopolano a tutte le ore.
l’europa oggi è un grande importatore di prodotti agricoli per il semplice motivo che i campi vengono sostituiti da città e le agriculture biologice che ci piaciono tanto non sono in grado di produrre abastanza per sfamarci tutti.
se in tutto il mondo sostituissimo l’agricultura tradizionale con quella biologica dovremmo abbattere tutte le foreste per sfamarci e forse non ci riusciremo.
un pò il ragionamento di chi sostituisce il riscaldamento con l’impianto a legna e non pensa che, forse, c’è un motivo se qualche anno fa siamo passati dalla legna al petrolio.