Addio a William Baumol
Con la scomparsa di William Baumol, se ne va uno degli economisti più eclettici e produttivi del Novecento.
Baumol è stato tutto: “micro” e “macro”, teorico ed empirico, storico dell’economia e storico del pensiero economico. Proprio per questo è difficile dare una visione organica del suo contributo alla disciplina, che ha lasciato il segno in una molteplicità di campi e ha, in più di un caso, tracciato un discrimine tra il “prima” e il “dopo”. Forse il modo migliore per farsi un’idea dell’uomo e dell’economista è leggere la bellissima intervista realizzata da Alan Krueger nel 2001 per il Journal of Economic Perspectives. In un passaggio, Baumol rende perfettamente l’idea del suo approccio e della sua immensa curiosità:
io cerco sempre una teoria… Non sono particolarmente interessato alle piccole cose. Ma, piccole o grandi, cerco sempre di arrivare all’astrazione che ne emerge. A volte sono fortunato: l’astrazione si rivela utile. E altre volte sono molto fortunato, e mi accordo di aver sbagliato tutto. E’ proprio quando mi accorgo di aver sbagliato tutto, che mi vengono le idee migliori. Perché se la mia intuizione era gusta, quasi sempre si tratta di qualcosa di abbastanza semplice e lineare. Quando la mia intuizione è sbagliata, c’è qualcosa di meno ovvio da spiegare.
Baumol è noto soprattutto per il “morbo” che porta il suo nome, detto anche “malattia dei costi” (cost disease). L’idea, espressa per la prima volta in un paper del 1965 con William Bowen, nasce dall’osservazione delle arti e dello spettacolo: perché il costo del vostro telefonino scende nel tempo, mentre il concerto del vostro cantante preferito costa sempre più caro? In termini più formali: perché nei mercati dei prodotti la produttività continua a crescere, mentre nei servizi ad alta intensità di lavoro questo non accade? Infatti, l’output per ora-uomo nella fabbrica di telefonini aumenta per effetto del progresso tecnologico, ma questo è vero solo in piccola parte per il cantante. Secondo Baumol, le due cose sono legate l’una all’altra: i salari negli altri settori crescono seguendo la dinamica della produttività, quindi se l’impresario teatrale vuole che il cantante continui a esibirsi, deve a sua volta aumentarne il salario senza però che questo rifletta un guadagno di produttività. Questo problema non riguarda solo il mondo della cultura ma tutti quei servizi – quali la scuola, la sanità e la raccolta dei rifiuti – nei quali il costo del lavoro domina sul costo del capitale. Questo spiega perché, nelle società moderne, si verifica il fenomeno di una forte innovazione tecnologica associata a tassi di crescita relativamente bassi. Naturalmente, la teoria di Baumol non spiega tutto: per esempio, anche nei settori citati, non è ovvio che la tecnologia non possa supportare l’incremento della produttività (si pensi all’impiego delle tecnologie digitali nella scuola e nella sanità) ma la prospettiva dello studioso della New York University può difficilmente essere elusa e, se anche non spiega tutto, spiega certamente qualcosa.
Un altro grande contributo di Baumol alla teoria economica è la “riscoperta” dell’imprenditore. L’approccio neoclassico dà grande spazio alle imprese e ai prezzi, ma poco agli imprenditori. In particolare, gli economisti si sono spesso occupati del tema dell’innovazione: sia riguardo alla sua definizione e ai suoi effetti (Joseph Schumpeter) sia riguardo al suo contributo alla crescita economica (Robert Solow). Ma non si può immaginare l’innovazione senza innovatori e, dunque, non può esserci l’impresa senza l’imprenditore: l’indagine sul funzionamento dell’economia, allora, deve necessariamente investire anche la figura dell’imprenditore, come Baumol tentò di fare nel 1968 estendendo la teoria dell’impresa a una teoria dell’imprenditorialità (arrivando, dal versante neoclassico, a conclusioni analoghe a quelle di Israel Kirzner che muoveva invece da una prospettiva austriaca).
Se si mette l’imprenditore sotto la lente d’ingrandimento, si arriva presto a sollevare una domanda: perché in alcune società gli imprenditori sono più innovatori che in altre? In un delizioso paper del 1990, Baumol argomenta che, più ancora dell’offerta di imprenditori all’interno di una società, conti il tipo di attività a cui essi si dedicano. Tali attività, infatti, possono essere produttive (l’innovazione), improduttive (la caccia alle rendite o la ricerca di cavilli per non pagare le tasse) o distruttive (il crimine organizzato). Sono istituzioni, norme e incentivi a spingere gli imprenditori nell’una o nell’altra direzione – una tesi che trova peraltro piena corrispondenza nel lavoro di Douglass North).
Uno degli aspetti cruciali per massimizzare l’apporto socialmente costruttivo degli imprenditori, dal punto di vista istituzionale, è l’apertura o meno dei mercati alla concorrenza. Per lungo tempo – almeno fino alla “rivoluzione di Chicago” – gli economisti hanno interpretato la concorrenza guardando principalmente alla struttura del mercato, cioè a variabili quali il numero delle imprese, le quote di mercato, eccetera (d’altronde, una delle ipotesi della concorrenza perfetta è proprio che il numero di imprese sia sufficientemente alto). Baumol ha seriamente incrinato questo paradigma spostando l’attenzione dagli esiti del mercato (intesi in questo senso restrittivo ed “ex post”) alla sua contendibilità. La teoria, descritta in un libro del 1982 con John Panzar e Robert Willig (e riassunta in questo paper dello stesso anno), è che un mercato può avere caratteristiche concorrenziali anche se presenta una struttura oligopolistica o addirittura monopolistica, purché i costi di entrata siano sufficientemente bassi, non vi siano costi “affondati” (sunk costs) e i clienti siano mobili. Sotto queste condizioni, il monopolista praticherà prezzi “di mercato”, perché se tentasse di estrarre rendite, immediatamente i concorrenti si affaccerebbero e gli sottrarrebbero clienti, riportando l’equilibrio originale. Di conseguenza, dimostra Baumol, non è vero che la struttura del mercato determina la condotta degli agenti, ma è vero il contrario.
Baumol è stato un autore prolifico e influente in moltissimi ambiti. Non c’è economista vivente che non si sia misurato con lui e che non abbia potuto o dovuto prendere le mosse da qualche sua acuta intuizione. La sua scomparsa lascia un vuoto, reso più vasto dal rimpianto che la sua produzione non sia mai stata suggellata dal conferimento del Premio Nobel. Ma più dei riconoscimenti in vita conta l’eredità che lo studioso lascia: i campi che egli ha seminato e i nuovi percorsi di ricerca che ha aperto e che adesso spetta ad altri seguire.