Addio a Lambsdorff, liberale vero in tempi difficili
È morto Otto Friedrich Wilhelm von der Wenge Graf Lambsdorff, “Otto il conte” come tra la fine degli anni 70 e i primi 80 lo chiamavamo amichevolmente ai seminari IFLRY, la federazione internazionale dei giovani liberaldemocratico-radicali, seminari che venivano spessissimo ospitati e finanziati dalla Friedrich Naumann Stiftung della FDP. E ai quali interveniva molto frequentemente lui stesso, curiosissimo di capire che cosa masticassero le giovani leve liberali, europee e del mondo OCSE. Devo ammettere che mi è scappata una lacrima, quando ho letto della sua scomparsa. Perché è stato tra le personalità che più hanno spinto in avanti il mio pensiero, quando da giovanissimo ero convinto che Keynes avesse ragione, e che da noi in Italia l’accordo col Pci ricercato da Ugo La Malfa e Aldo Moro fosse necessario, per portare i comunisti alla piena occidentalizzazione e usare la loro energia per impostare riforme energiche senza delle quali l’Italia appariva destinata a un gramo futuro, sotto il duplice attacco della stagflazione e del terrorismo. Lambsdorff ci di dava torto, e aveva ragione lui. Per almeno tre ragioni.
Lui stesso in quegli anni divenne ministro dell’Economia nei governi di coalizione tra SPD e liberali, guidati da Helmut Schmidt. Ma sempre tenendo la barra ben ferma su politiche liberali e liberiste, continuando cioè ogni anno ad accettare le durissime polemiche che suscitavano i suoi discorsi e le sue proposte, di abbassamento delle spese federali e delle tasse, e di deregolazione dell’economia. Alla fine perdeva quasi sempre ma comunque non si tirava indietro mai. Se non ci fosse stato lui, gli anni di governo socialista sarebbero continuati e lo statalismo germanico sarebbe diventato ancor più pesante e invasivo. Al contrario, grazie alla ostinata e coerente tenacia liberale di Lambsdorff i tedeschi capirono che era il caso di voltare pagina. E vennero gli anni di Kohl, sempre con “Otto il conte” all’Economia, e finalmente più spazio a politiche liberali. La prima lezione di Lambsdorff era che i liberali possono essere partner minoritari in una coalizione dominata da forze di massa, cattoliche o socialiste, ma che il loro compito consiste sempre nel tenere alta la bandiera e nel rompere le scatole, non nel rassegnarsi a farsene caudatari. Come per troppi anni fecero invece liberali e repubblicani italiani, verso Dc e Psi alleati.
La seconda lezione di Lambsdorff riguardava il mercato. Non amava affatto il capitalismo “renano”, e voleva per la sua Germania più capitalismo anglosassone. Ha scritto decine e decine di articoli contro l’eccessiva compenetrazione tra grandi gruppi bancari e grande imprese germaniche, condita di Mitbestimmung coi sindacati che oggi alcuni vogliono importare fuori tempo in Italia. “La coesione sociale serve alla Germania per renderla meno debole, ma per renderla più forte serve più crescita nel mercato e con più mercato, non con più vincoli orizzontali con le banche e verticali col sindacato”, ripeteva sempre. Le stesse cose diceva quando grandi imprese come Bosch o VW lo chiamarono nei consigli di gestione e sorveglianza.
La terza lezione vale ancor più per l’Italia di ieri e di oggi: ha a che fare con il giustizialismo. Dal 1981 al 1984 quando fu costretto dimettersi da ministro, Lambsdorff fu esposto agli attacchi martellanti della stampa di sinistra, per i contributi ai partiti del grande gruppo Flick. Resistette in maniera esemplare. Tutti i partiti li avevano ricevuti tranne i Verdi, e per quanto lo riguarda fu suo punto d’onore dimostrare che nemmeno un marco si era fermato alle sue tasche. Restando al suo posto, al governo. Alla fine, le imputazioni furono derubricate in sanzioni amministrative per irregolarità fiscali. Kohl lo sacrificò comunque, per ragioni elettorali, e sbagliò. La credibilità di “Otto il conte” era intatta. Al Bundestag, fu infatti rieletto fino al termine degli anni anni 90. E tanto era autorevole, che a 15 anni dalle sue dimissioni da ministro dopo il governo Schroeder a Lambsdorff si rivolse, per condurre in porto il difficile negoziato internazionale per il rimborso tedesco agli ex schiavi di guerra asserviti dal Terzo Reich, deportando e assassinando sul fronte orientale. Non meno di 5 miliardi, disse Lambsdorff quando Schroeder gli chiese di stabilire un tetto minimo al rimborso. E così fu, puntualmente. “Lo dobbiamo per lavare almeno parzialmente un onta che non sarà lavata mai, quella dei crimini di Stato che abbiamo compiuto”. Antistatalista anche in questo, e perciò ancor più fieramente antinazista, lui che negli ultimi mesi di guerra, giovanissimo, ci aveva rimesso mezza gamba sinistra. E per questo girava sostenendosi, fino a pochi anni orsono, ad elegantissimi bastoni.
Auf Wiedersehen, Otto. Sono sicuro che migliaia di oggi non più giovani, ai quali decenni fa hai aperto la testa, sono impegnati a fare da oggi in avanti ancor meglio, memori delle tue lezioni.
Mi piacerebbe sapere qualcosa sulla vita e sul pensiero di quest’uomo. Conosce qualche lettura al riguardo?
Grazie.
@koteko
Mi permetto di intervenire. Caro Koteko, di libri in italiano non c’è ahimè nulla. In tedesco Lambsdorff ha scritto abbastanza. Lo spessore e la rigorosità intellettuale di quest’uomo fa un baffo a quella dell’attuale leader dell’FDP.
@Giovanni Boggero
Forse pero’ esiste la traduzione in inglese. Da quale dei suoi testi dovrei iniziare per avere un’idea del suo pensiero economico, Giovanni?
Grazie del commento.
Probabilmente non è lo spazio giusto. Ho sentito però oggi il Suo intervento sul caso “G.Fidenato” fatto all’Ass. Studenti Bocconiani Liberali, chiaro e condivisibile. come sempre! Occorrerà tempo e spero che possano riuscire. In ogni caso è giusto insistere.
Fidenato mi ha fatto ricordare anche una stranezza che scoprii a metà anni ’90. Allora non esisteva però questo mezzo formidabile di aggregazione. Durante una pesante ed irregolare trattativa sindacale (era una PIM) come direzione si decise di non fare più le trattenute Sindacali in busta paga ai lavoratori, seppur in presenza di delega.
La gestione era esterna ed informammo il consulente.
Con sorpresa questi disse che non conveniva ! Non capivamo ed allora ci disse che per un accordo INPS-Sindacati, sconosciuto a tutte le PIM credo, le Aziende godevano di uno sconto, mi pare fosse il 3,5%, sul cumulo dei contributi mensili, solo se esse si impegnavano a fare dette trattenute. Trattandosi di parecchie centinaia di milioni , di lire, di contributi INPS, l’aggravio totale sarebbe stato di svariate decine di milioni annui. Quindi non si fece. Interpellai le Ass. di Categoria che ovviamente dissero che la cosa era nota , ( a loro non a noi) e che comunque il clima politico-sindacale ……….. bla,bla .. suggeriva di non ……. Scrissi al Corriere della Sera che non pubblicò….!
Un altro ricordo! Alcuni gruppi industriali hanno centinaia di Aziende, iscrivono però di solito solo la maggiore a Confindustria, pagando cosi magari solo un centesimo del dovuto, ma godendo invece comunque dei servizi per tutte le aziende, mentre una PIM , diciamo con 100 dipendenti, paga per tutti.
Per finire con le stranezze, non sò se le è noto, le quote associative di Confindustria non sono versate direttamente dalle Aziende alla medesima Associazione, ma riscosse dall’ INAIL unitamente alla cartella dei premi annui per l’assicurazione dei dipendenti !
Quindi i Sindacati non si fidano dei loro tutelati e Confindustria non si fida dei propri associati, e questo mi fu detto molto chiaramente !!!
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Allora volevamo fare un caso anche per queste stranezze ma fu “vivamente sconsigliato” alla proprietà.
Mi piacerebbe molto sapere se qualcosa è cambiato in questa Italica “palude”.Magari potrebbe essere oggetto di un post!
Pier