Addio a Douglass North
Con la scomparsa di Douglass North, se ne va un altro gigante dell’economia.
Qui la sua biografia tratta dalla Concise Encyclopedia of Economics; qui un suo profilo intellettuale di Dan Klein e Ryan Daza; qui Kevin Bryan. L’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato l’intervista a North condotta da Arnold Kling e Nick Schulz nel loro Economia 2.0.
Nobel per l’economia nel 1993, North nasce come storico economico, e viene premiato (assieme a Robert Fogel) proprio “per aver innovato la ricerca nella storia economica applicando la teoria e i metodi quantitativi allo scopo di spiegare il cambiamento economico e istituzionale”. In particolare, il suo lavoro ha “gettato luce sullo sviluppo economico in Europa e negli Stati Uniti prima e durante la rivoluzione industriale. Egli ha enfatizzato il ruolo dei diritti di proprietà e delle istituzioni”.
In questa prospettiva, North non era “solo” uno storico economico: era un economista a tutto tondo. La sua attività di ricerca si è avvalsa dei mezzi che la disciplina metteva a disposizione per indagare le vicende passate allo scopo di rispondere a una domanda banale eppure intricatissima: perché alcuni paesi crescono più velocemente e altri meno, e altri ancora non crescono affatto? Come è ovvio, North non è in grado di dare una risposta – nessuno lo è, in assoluto. Ma i suoi contributi aiutano a guardare nella direzione giusta. Il driver della crescita è la produttività. A questo proposito, North evidenzia un aspetto che in precedenza era stato forse sottovalutato dalla disciplina, e che tuttora viene generalmente ignorato nel disegno delle policy. La produttività dipende dal progresso, ma il progresso non consiste solo nello sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate. Il progresso deriva anche, e forse in misura ancora maggiore, dallo sviluppo di nuove soluzioni organizzative da parte delle imprese. Uno dei messaggi più forti di quello che è forse il suo capolavoro, The Economic Growth of the United States: 1790-1860, è proprio l’enfasi sull’organizzazione industriale, da cui deriva la capacità delle imprese di innovare e generare ricchezza diffusa.
Se tutto questo è vero, la capacità di un paese di stimolare la propria dinamica della produttività dipende in generale dalla qualità delle sue istituzioni, e in particolare dall’efficacia di tali istituzioni nel proteggere i diritti di proprietà.
Dal punto di vista di North, la crescita – cioè la creazione di valore – si realizza grazie allo scambio; dunque, per aumentare la prosperità di una nazione, occorre facilitare gli scambi. Il concetto chiave, allora, è quello dei costi di transazione – e in questo senso North è debitore di Ronald Coase, che ebbe il Nobel appena due anni prima di lui. I paesi di successo sono quelli che riescono a dotarsi di un assetto istituzionale tale da minimizzare i costi di transazione. Solo che non esiste una ricetta valida per tutti. Per questo lo studio della storia economica è cruciale nel comprendere che le istituzioni, formali e informali, evolvono nel tempo, e risentono tanto dei cambiamenti esterni, quanto delle isteresi (anche culturali) interne. In pratica, i paesi poveri hanno difficoltà a uscire dalla povertà, e quelli ricchi tendono a crescere in modo più sostenuto, proprio perché i primi devono ancora scoprire la chiave del proprio successo ma sono in questo frenati da una forte “path dependency”. Sta nelle istituzioni la soluzione del dilemma della convergenza: cioè va cercata nelle regole con cui ciascun paese governa la propria vita economica la ragione per cui, a dispetto dell’aspettativa per cui il reddito nazionale nel lungo termine dovrebbe convergere, ciò accade in modo quanto meno asistematico. Ma il cambiamento istituzionale non può essere né un processo top down, né un processo rapido: non contano solo le regole formali, ma anche i comportamenti informali e il modo in cui esse vengono interpretate e in cui gli agenti economici si adattano e reagiscono agli incentivi. Da qui l’esigenza di tenere conto della dimensione temporale dei fenomeni economico-istituzionali.
La sua Nobel Lecture è sotto questo profilo molto esplicita:
This essay is about institutions and time. It does not provide a theory of economic dynamics comparable to general equilibrium theory.1 We do not have such a theory.’ Rather it provides the initial scaffolding of an analytical framework capable of increasing our understanding of the historical evolution of economies and a necessarily crude guide to policy in the ongoing task of improving the economic performance of economies. The analytical framework is a modification of neo-classical theory. What it retains is the fundamental assumption of scarcity and hence competition and the analytical tools of micro-economic theory. What it modifies is the rationality assumption. What it adds is the dimension of time.
L’eredità di North è dunque vastissima e investe numerosi settori disciplinari. A lui si può attribuire addirittura la nascita di una vera e propria “scuola” (sulla cautela nell’uso di tale termine in economia si veda Alberto Bisin): la scuola “neo istituzionalista”. Assieme a Coase e Oliver Williamson (Nobel nel 2009) egli fondò la International Society for New Institutional Economics (ora Society for Institutional & Organizational Economics). Come scrive Michael Sykuta, al di là delle divergenze di opinioni su temi anche cruciali, i tre capivano benissimo la complementarietà dei rispettivi percorsi di ricerca, e la necessità di mettere a fattor comune, prima ancora che una teoria, un approccio.
Allo studio delle determinati istituzionali dello sviluppo economico, North dedicò la sua intera vita professionale. Andandosene ci ha lasciato una teoria del rapporto tra crescita, istituzioni e proprietà, che è sistematizzata nel suo libro forse più esplicito e articolato, Institutions, Institutional Change and Economic Performance. Ma ci ha lasciato soprattutto un terreno di ricerca arato e fertilizzato, grazie al quale abbiamo gli strumenti per riconciliare la teoria economica con l’evidenza storica sulla ricchezza delle nazioni.