Adam Smith: padre del Liberalismo?
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco D’Ignazio.
Una delle poche certezze esistenti nel litigioso mondo dello studio del pensiero economico è l’attribuire ad Adam Smith la paternità dell’ideale liberista in economia. O almeno così era fino a poco tempo fa. Sono sempre più numerosi infatti gli studiosi di matrice non liberale che contestano la fede del filosofo scozzese nell’individualismo, punto cardine del pensiero liberale1.
È giunto allora il momento di analizzare nuovamente il pensiero di Smith per comprendere i motivi che lo hanno portato ad essere universalmente riconosciuto come padre del liberismo e cosa spinge alcuni pensatori moderni a contestare questa definizione.
Qualunque studio del pensiero di Smith non può che partire dalla sua opera più nota, “La Ricchezza delle nazioni”, pubblicata nel 1776 quando il pensiero Smithiano aveva ormai raggiunto la piena maturità e la Gran Bretagna attraversava la prima rivoluzione industriale.
Cosa abbia spinto gli economisti a ricondurre proprio a “La Ricchezza delle nazioni”, la prima importante teorizzazione del laissez faire si può facilmente intuire già dalla lettura del primo dei cinque libri che compongono l’opera, “Sulla divisione del lavoro”. Come suggerisce il titolo, è proprio al processo di divisione del lavoro che Smith riconduce la rivoluzione industriale. Esisterebbe infatti una naturale propensione allo scambio negli uomini. Sull’origine di questa predisposizione, legata secondo l’autore alla facoltà del linguaggio, si potrebbe scrivere un intero altro saggio. Ad ogni modo questa predisposizione esiste, si trova solamente nell’uomo ed in nessun altra specie, ed ha portato gli uomini a passare attraverso i secoli da una condizione nella quale ogni individuo adulto è autosufficiente, come per l’appunto avviene nel mondo animale, ad una società commerciale basata sugli scambi fra gli uomini.
Il capitalismo appare essere dunque la condizione naturale dell’uomo e la rivoluzione industriale non una semplice fase storica, come sosterrà in seguito Marx, bensì il risultato di un processo naturale che è andato a montare nei secoli.
È dagli altri uomini dunque che dipendiamo nella moderna società commerciale, ma non certo dalla loro benevolenza, «It is not from the benevolence of the butcher, the brewer, or the baker that we expect our dinner, but from their regard to their own interest.» Ogni uomo dovrà quindi fare in modo che esista una domanda per i frutti del suo lavoro, in modo da poterli scambiare con altri beni di cui necessita.
Nel libro secondo (il titolo in italiano è “Sulla natura dei fondi”, ma l’originale inglese “On the nature, accumulation & employment of stock” ne riassume meglio il contenuto), Smith tratta la questione dell’accumulo di capitale: Se il libro precedente era dedicato soprattutto al semplice scambio di merci, ora viene trattato il tema dell’accumulo di capitale e la sua messa a frutto negli investimenti.
È qui che appare la anche troppo citata metafora della “mano invisibile”, ovvero la forza che spinge i risparmiatori ad investire il loro capitale in quelle attività commerciali che risultano efficienti e redditizie. Secondo Smith dunque, per il quale esiste un equazione esatta fra risparmi e investimenti, i risparmiatori, pur avendo a cuore esclusivamente l’accrescimento del loro capitale, sono indotti a sostenere le attività produttive più efficienti del loro paese. È così che l’investitore, il capitalista, contribuisce al bene della società tutta, pur non essendo questo il suo vero scopo: egli mira solamente ad accrescere il proprio benessere.
Ma il più famoso argomento di Smith a favore del laissez faire lo troviamo nel libro quarto, “Sui sistemi di Economia Politica”. Si tratta dell’ invettiva contro il mercantilismo, promosso,curiosamente da un altro padre del liberalismo: John Locke. Questi nel suo “Secondo Trattato sul governo”, sosteneva l’importanza del denaro come riserva di valore, a causa della sua natura non deperibile. Andava così a giustificare quelle alle politiche mercantiliste condotte dalla maggior parte dei paesi europei all’epoca.
Smith invece, argomentando che l’unica funzione del denaro è far circolare beni di consumo, dà inizio a quel processo che portò la Gran Bretagna, anche se solo nel 1846, ad abrogare le corn laws, simbolo del sistema mercantilista, ed a sposare il libero mercato.
La naturale propensione umana allo scambio, i benefici effetti dell’iniziativa privata, ed i meriti del commercio internazionale, che non è da interpretarsi come un gioco a somma zero, sono tutti contenuti in questo libro. Appare dunque giustificato il considerare “La Ricchezza delle Nazioni”, il primo manifesto del liberismo.
Le argomentazioni dei sostenitori dello Smith illiberale vanno invece ricercate in un’altra opera, la “Teoria dei sentimenti morali”, pubblicato nel 1759. Pur essendo questa quasi vent’anni precedente “La Ricchezza delle Nazioni”, non sarebbe giusto sostenere che Smith avesse ormai ripudiato le conclusioni di quello scritto al momento di redigere la sua opera più famosa. Infatti le corrispondenze private dell’autore rivelano che egli continuò a correggere ed appuntare “La Teoria dei sentimenti morali” fino alla sua morte.
Ma cosa contiene quest’opera di tanto rilevante da far vacillare secondo alcuni l’interpretazione di Smith come pensatore liberale? Il libro fornisce molte più chiavi di interpretazione sull’impianto filosofico Smithiano di quanto non faccia “La ricchezza della nazioni”. Da qui emerge che Smith rifiuta l’individualismo metodologico, ovvero la dottrina secondo cui ogni fenomeno, anche economico va spiegato in termini di azioni e preferenze individuali, ovvero la concezione filosofica alla base del pensiero di autori successivi come Schumpeter, Hayek e Popper.
In questo saggio Smith definisce ovvia, senza bisogno di dimostrazioni, l’inclinazione umana a provare compassione per i suoi simili nonchè l’esistenza di un “legame di benevolenza” fra gli uomini. Ma Smith si spinge ancora più in là, sostenendo che gli esseri umani esistono solo in funzione della società in cui vivono. Essa funge da specchio nel quale l’individuo costruisce l’immagine di se stesso.
Adam Smith descrive nella Teoria dei sentimenti morali appunto, un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l’immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall’ altruismo pur non sostituendosi all’egoismo.
Se è vero dunque che la “Teoria dei sentimenti morali” costituisce le fondamenta etiche, filosofiche, psicologiche e metodologiche del pensiero di Smith e anche delle sue opere successive, apparrebbe che effettivamente Adam Smith non è, almeno eticamente, un individualista.
Tornando però alla “Ricchezza delle Nazioni “, come modifica la nostra interpretazione dell’opera questa nuova identità “illiberale” -poiché non sostenitrice dell’individualismo- dell’autore?
Smith afferma nel libro che l’iniziativa privata, motivata da interesse personale, sia benefica per la società tutta, che il libero commercio fra le nazioni sia da preferirsi al protezionismo, ed in generale, che l’uomo sia naturalmente inclinato allo scambio ed al libero commercio. Il fatto che nella “Ricchezza delle Nazioni” vengano delineati chiaramente tutti quegli elementi che sono diventati il cardine del pensiero liberale in economia non è certo modificato da una nuova interpretazione dell’apparato filosofico del suo autore. Anzi, che Smith abbia prodotto queste idee, nonostante esse siano, a detta di alcuni studiosi, in contraddizione con il suo sia sistema etico, non rafforza forse la sua convinzione nelle stesse?
Tutto ciò ovviamente, dando per scontato che esista veramente una contraddizione fra il non-individualismo in etica e il liberalismo in economia, tema che richiederebbe ulteriori riflessioni.
Quale che fosse la filosofia di Smith, non dobbiamo dimenticare che egli prese parte attivamente al grande dibattito nazionale sulla politica economica che ebbe luogo in Gran Bretagna fra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo.
La convinzione di Smith nell’ideale del libero mercato, che lui stesso non riuscì a veder prevalere, poiché le corn laws vennero abrogate solo nel 1846, più di cinquanta anni dopo la sua morte, appare dunque salda, non scalfita dalle comunque interessanti speculazioni sul suo sistema filosofico.