Acea. Cent’anni de pianti, nun pagheno un sordo de debiti
Il comune di Roma, trovandosi come suol dirsi a navigare nella merda (merda quantificabile in un indebitamento per circa 12,5 miliardi di euro), sta per varare la “privatizzazione” di Acea. Il problema è che quello che i media e il sindaco, Gianni Alemanno, chiamano privatizzazione, in realtà privatizzazione non è, in quanto presuppone comunque il mantenimento di una quota di controllo al Campidoglio. In più, siamo al paradosso per cui il venditore vorrebbe scegliersi il compratore e, essendocene uno buono per tutte le stagioni, non esita a tirarlo pubblicamente per la giacchetta: la Cassa depositi e prestiti.
Quella romana è una vicenda tra le più surreali, persino nel variegato mondo delle municipalizzate. Il comune ha resistito in ogni modo alla cessione di quote delle sue partecipate, potendo contare sull’aiuto di un governo amico. Già all’epoca del maxiprestito, eravamo intervenuti sul tema con un Focus di Piercamillo Falasca, che individuava la soluzione proprio nella cessione (integrale) di Acea. Ci siamo?
Macché. Il comune avrebbe in animo in primo luogo di riunire tutte le controllate (incluse Ama e Atac, le cui prospettive di alienazione sembrano tramontate) sotto una unica holding, e poi di utilizzare questo strumento per procedere al collocamento di tranche azionarie più o meno importanti, à la carte, senza un disegno e sulla base delle esigenze finanziarie del momento. Al momento, l’operazione più semplice – perché non implica grandi scornamenti coi sindacati – è appunto quella su Acea. Che, giusto per garantire ulteriormente che non un posto di lavoro verrà toccato, e naturalmente nell’ipotesi eroica che l’azienda non sia sovra-organico e che neppure un fattorino sia stato preso in quanto amico di amici o parente di parenti, parrebbe avvenire in forma anomala.
Una possibile forma anomala è quella dell’ “azionariato popolare”. In pratica, nessuno potrebbe acquistare più del 2 per cento del capitale, e nessuno che possegga più del 2 per cento potrebbe pigliare anche una sola azione. Traduzione: stop ai soci ingombranti, cioè Francesco Caltagirone (che oggi ha il 15 per cento) e GdfSuez (11 per cento), ammesso e non concesso che siano interessati a crescere.
Seconda (e preferita) alternativa: l’ingresso, appunto, della Cassa depositi e prestiti, che al momento non conferma né smentisce il suo interesse.
Va da sé che la prima soluzione sarebbe inefficace (rispetto all’obiettivo di Alemanno) nel senso che, se anche le azioni fossero acquistate da un ampio numero di Signor Nessuno, sarebbe praticamente impossibile impedirgli di cedere le loro quote, in un secondo momento. La seconda sarebbe invece molto pericolosa, perché si tratterebbe dell’ennesimo freno alla trasformazione di società comunque importanti in veri e propri soggetti di mercato. Cosa che il mercato gradirebbe, come dimostrano gli andamenti positivi del titolo ogni volta che la parola “privatizzazione” viene anche solo nominata.
Privatizzare, nell’ottica aziendale, è importante perché consente di slegare gli obiettivi del gruppo da quelli “politici” della giunta, e dalla demagogia dei politici (qui un esempio recente e romano). Che infatti sono scatenati contro la cessione parziale di Acea al grido del “no alla privatizzazione dell’acqua”, senza rendersi conto che in ballo non c’è, purtroppo, né la privatizzazione di Acea, né tanto meno quella dell’acqua.
In sostanza, il comune sta facendo poco e male la cosa giusta, col rischio di trasformarla in una cosa inutile, o utile solo a determinare un’entrata straordinaria e alleviare, temporaneamente, le difficoltà finanziarie di Roma capitale. Il fatto è che non saranno i circa 200 milioni di euro ricavabili dal 20 per cento di Acea a determinare grandi cambiamenti. Bisogna smetterla di usare a sproposito la parola “privatizzazione”. Privatizzare vuol dire vendere aziende pubbliche ai privati: non vendere partecipazioni finanziarie di società la cui testa rimane comunque eterodiretta, e non organizzare partite di giro in cui soggetti pubblici comprano soggetti pubblici da altri soggetti pubblici.
Privatizzare non è un verbo che appartiene all’attuale “governance” italiana nemmeno a quella dei “professori”. Privatizzare una Utility quale Acea o altre ex municipalizzati vorrebbe dire fare entrare, ovviamente con gara europea, nell’azionariato “soci industriali operativi” che quindi metteno a disposizione Know how e mezzi per gestire direttamente i servizi pubblici che vengono svolti. Tutti in Italia hanno invece in mente soluzioni solo finanziare nelle quali in socio privato entra nel capitale “sistema” qualche manager e continua a gestire “gli appalti” insieme al potere politico.
Consiglio a tutti di andarsi a rileggere il parere pro veritate che il scrisse il prof. Barrile nel lontanissimo 1996 nel quali auspicava che una PPP per la gestione del SII fosse una S.P.A. costituita in forma consortile in cui partecipino imprese con idonee capacità tecniche in grado quindi di svolgere le attività richieste per la gestione dei pubblici servizi compresi i lavori inseriti nel piano industriale.
Purtroppo anche nell’attuale DL liberalizzazioni siamo ancora lontanissimi dalle “privatizzazioni” poichè il potere politico non ha nessuna intenzione di cedere a chicchessia il “giocattolo” dei SPL.
Roma Capoccia continua a fare la furba.
Vorrebbe la moglie ubrica e la botte piena.
Il problema (ahimè) è sempre il solito…..evitare a tutti i costi di privatizzare aziende pubbliche per evitare licenziamenti di massa (come avvenuto per Alitalia/AliRoma).
Le aziende municipalizzate romane (e tutte le aziende municipalizzate italiane così come buona parte della pubblica amministrazione nostrana) hanno un sacco di dipendenti in esubero i quali percepiscono lo stipendio e trascorrono la giornata a leggere il giornale. Emblematico a tal proposito il servizio di Report sull’ATAC, dove un dipendente in incognito dichiarava alla giornalista della trasmissione di Rai3 che negli uffici della azienda di trasporti romana i dipendenti sono talmente tanti e talmente in esubero che non ci sono nemmeno le scrivanie sufficenti per farli sedere tutti. Comunque tranquilli….tranquilli…la globalizzazione e gli spread non perdonano…la cuccagna è finita…..e con lei stanno finendo i soldi….arriverà il giorno in cui il sistema di sperpero e di parassitismo andrà al collasso….quindi tutta questa massa di “esuberanti” o accetterà di lavorare a gratis oppure dovrà essere inevitabilmente licenziata (Grecia docet).
Tutte le volte le stesse ssolfe, quanddo arriveremo ad una vera rivoluzione culturale e non al valzer delle poste di bilancio statale col gattopardesco obbiettivo di cambiar tutto affinchà tutto resti immutato? al posto del comune la cassa depositi e prestiti. Anzichè aliatalia la CAI, invece dell’Alfa a FORD alla FIAT. Banco di Napoli a Intesa e Geronzi a Unicredit per il pellegrinaggio Mediobanca-Generali-San Vittore? e sempre pantalone a scucire denari pensioni e Una Semper per l’impreparazione e la codardia di tutte le cosche di questo paese di GUANO
INVESTITORI vs BUONI SAMARITANI
Abbiamo letto su questo stesso sito che ACEA sta per eliminare dalla propria tariffa dell’acqua la quota di “remunerazione del capitale investito”, abrogata dai referendum di giugno
(Acqua: il comune di Roma fa lo sgambetto ad Acea, 24 Febbraio 2012).
Credo sara’ difficile trovare acquirenti per le azioni ACEA che siano disposti a rinunciare alla remunerazione del proprio investimento.
Al Comune non resta che rivolgersi al Vaticano. Che investa due denari in queste azioni e paghi al Comune di Roma dicendo: «Abbi cura dei posti di lavoro, e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò alla privatizzazione della prossima tranche di azioni»