7 luglio 2009. Crisi del gas?
Ancora una volta, allarme rosso sulle forniture di gas dalla Russia via Ucraina. In conclusione della riunione del Gruppo coordinamento gas, la Commissione europea ha invitato gli Stati membri a “riempire gli stoccaggi” e prepararsi a eventuali interruzioni “nelle settimane o mesi a venire”. A monte di tutto, la consueta querelle tra Mosca e Kiev sul pagamento degli arretrati. Sul tappeto c’è il prestito da 4 miliardi di dollari che l’Ucraina ha chiesto all’Occidente, per far fronte ai suoi obblighi (anche se, come anticipato qualche giorno fa da Quotidiano Energia, probabilmente un paio di miliardi basterebbero a tranquillizzare i russi).
Il nostro paese, come già lo scorso inverno, non si trova in condizioni critiche. Secondo i dati resi noti da Stogit, la società (recentemente fusa con Snam Rete Gas) controllata dall’Eni che gestisce la maggior parte dei nostri stoccaggi, il livello delle scorte è buono. Inoltre, in questo momento la domanda termoelettrica (che probabilmente salirà con l’acuirsi del caldo estivo) è perfettamente gestibile, e i consumi industriali, pure presumibilmente in ripresa rispetto ai mesi passati, sono lontani dai picchi pre-crisi. Più nel medio termine, entro la fine dell’anno dovrebbe entrare in funzione il rigassificatore di Rovigo, che, assieme allo sbottigliamento dei tubi dall’Algeria, dovrebbe garantire una capacità sufficiente a far fronte a qualunque problema che non sia davvero drammatico.
Se però l’Italia non piange, mezza Europa trema. Molti paesi, soprattutto nell’Est, dipendono integralmente o largamente dagli import dalla Russia, e le dorsali europee non sono sufficienti a garantire l’implementazione di efficaci meccanismi di solidarietà. Peraltro, se l’integrazione infrastrutturale del continente fosse sufficiente, la solidarietà neppure servirebbe, perché basterebbe il mercato: gli effetti dei mancati rifornimenti si “spalmerebbero” sull’intero spazio comunitario, rendendo molto più semplice gestirli e minimizzarne gli impatti. Questo conduce alla domanda che sempre, come un disco rotto, noi dell’IBL poniamo: a che serve l’Europa, se non riesce a promuovere un livello accettabile di integrazione dei mercati, soprattutto in quei mercati che sono naturalmente portati ad avere una dimensione ben più ampia di quella nazionale?
Si arriva così al tema del ruolo delle istituzioni europee, soprattutto in un momento di ampia maretta. Nonostante l’inspiegabile (per me) endorsemente dell’attuale presidente della Commissione, José Manuel Barroso, da parte del Wall Street Journal di oggi, l’attuale Commissione si è caratterizzata per una disarmante timidezza di fronte all’esigenza di piegare le resistenze degli Stati membri alle liberalizzazioni: dal terzo pacchetto energia alla miserabile fine della Direttiva Bolkestein, è tutto un triste elenco di occasioni perdute, come emerge, per esempio, dal modo agrodolce in cui viene trattato dallo Spiegel. Anzi, alle accuse di socialisti e verdi che lo tacciano di estremismo liberista (bum!), Barroso risponde che “non è un crimine essere liberali, ma io non sono un liberale”. Non potrei essere più d’accordo.
Se questo è il contesto, è difficile aspettarsi dal suo secondo mandato (a meno che gli irlandesi non gli diano il benservito votando contro Lisbona) innovazioni. Al massimo, farà peggio, insistendo sempre più sul dirigismo europeo (che per lo più, ma non solo, passa per le regolamentazioni ambientali, che sono il sentiero di minore resistenza da parte dei governi nazionali) e sempre meno sull’apertura dei mercati. Il che implica che, quando (non dico se: dico quando) le beghe tra Mosca e Kiev si ripresenteranno a dicembre, e poi al dicembre successivo, e così via fino alla fine dei tempi, la risposta che Bruxelles saprà e potrà dare resterà: “si salvi chi può”.
Non è una magra consolazione poter dire che, nonostante tutto, è probabile che l’Italia sia fra quelli che si possono salvare.