I 60 anni della Ue: ok l’entusiasmo, ma per l’Italia ecco i guai che restano
Andiamoci piano con il tripudio. Ieri la stampa italiana, molto più di quella europea, ha salutato il documento firmato a Roma in occasione del 60° del Trattato di Roma come se fosse la resurrezione di Lazzaro dalla tomba. L’Unione Europea c’è, tutti i 27 hanno firmato, la Brexit ormai è alle spalle, l’antieuropeismo e il nazionalismo spezza-Europa e spezza-euro sono alle spalle, questo in molti hanno detto. Dopo 24 ore, forse è il caso di riporre trombette e tamburi. Non è il caso di sostituire l’Europa al turno di serie A mancante ieri, con gli stessi atteggiamenti che le curve dei tifosi riservano ai propri colori.
È ovvio il sollievo al fatto che Polonia e Grecia alla fine abbiano firmato il documento senza porre veti, che minacciavano sia pur per motivi assai diversi. Benissimo, che l’atmosfera della cerimonia sia sembrata quella di un festoso pranzo di matrimonio. Ma l’analisi da fare non è «chi ha vinto e chi ha perso». Bensì quella, più concreta, «che cosa possiamo aspettarci»? Cercando di essere realisti, il documento è un buon testo per una ragione fondamentale, almeno per chi crede nell’Europa: ribadisce in faccia a Brexit che l’Unione è «indivisa e indivisibile». Non è per niente poco, visto che a firmarla sono governi conservatori e socialisti e di convergenza nazionale, ma anche fortemente identitar-nazionalisti come quello polacco e soprattutto ungherese. È anche molto apprezzabile il passaggio liberoscambista sul commercio internazionale, chiaramente un monito verso Trump, e un ponte verso la Cina. Ma, detto questo, per essere unitario e per comprendere quella buona frase essenziale, il testo è comunque pieno di compromessi. E nella loro interpretazione ognuno si appellerà a quel che più lo convince e gli interessa, che però non è affatto il minimo comun denominatore europeo.
I membri est-europei si riconoscono nella posizione polacca, che è riuscita a impedire che la cooperazione più stretta tra chi vuole diventasse uno sviluppo «ovunque possibile». Nel testo c’è scritto che essa sarà percorsa «se necessario», e con l’impegno di non lasciare «nessuno indietro». Facciamo due esempi per capire. Sulla difesa e sicurezza, uscito il Regno Unito i 3 maggiori paesi membri storici dell’Unione credono in una sfera di cooperazione ristretta «aggiuntiva» rispetto alla Nato. I Paesi est-europei a cominciare dalla Polonia sono risolutamente contrari: nessuna iniziativa europea deve essere immaginata per indebolire la Nato. Ai loro occhi, sono gli americani che li difendono da Putin, non certo italiani e francesi. Mettetevi nei loro panni. Hanno proprio torto? Oggettivamente: no.
Sul problema dei profughi e migranti, su cui è esplosa l’Europa dopo che la Merkel nell’estate 2015 spalancò le porte senza mettere in conto che per arrivare in Germania avrebbero dovuto percorrere il corridoio centroeuropeo e quello mediterraneo, il testo parla di una politica «efficace, responsabile, sostenibile, rispettosa delle norme internazionali», e altro bla bla. Di fatto, dunque, non solo il problema sollevato dai Paesi esteuropei sulla difesa resta in pieno. Anche sui profughi, bisognerà vedere come il corridoio mediterraneo, cioè l’Italia, riuscirà a ottenere più cooperazione europea per l’esercizio di filtri più efficaci. Ma è un percorso tutto da costruire.
Quanto agli sviluppi sull’economia, obiettivamente il documento è un gelato multigusto, che accontenta tutti i palati ma non indica priorità decisive. Dire che si vuole la crescita sostenibile, la coesione, la convergenza ma tenuto conto della diversità dei sistemi nazionali, la lotta contro la disoccupazione e la discriminazione e l’esclusione sociale beh non è proprio una chiara scelta di priorità che valga a turare le due falle economiche su cui l’Europa si è arenata. E cioè il mancato prosieguo nell’unificazione vera, per quanto a tappe, dei mercati del lavoro, dei beni e dei servici, anche per chi solo si accontenta del mercato unico. E, per i Paesi che invece hanno scelto l’euro, passi avanti concreti non solo nell’unificazione dei mercati ma soprattutto verso maggiori comuni di strumenti finanziari, di bilancio e di sostegno al reddito.
Idem dicasi per l’altro difetto «storico» della Ue funzionalista, cioè il deficit democratico. È particolarmente infelice la frase del documento che recita «ci impegniamo a dare ascolto alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini». Non si capisce come non sia venuto in mente agli estensori che essa rievoca testualmente le espressioni che usavano i monarchi di inizio Ottocento, allorché benignamente «concedevano» le prime Costituzioni dopo aver paternalisticamente porto il loro sollecito orecchio alle proteste del popolo
Quindi la conclusione del vertice di Roma è certo positiva, ma ora va riempita di contenuti. Servono leader davvero capaci di elaborare proposte concrete e in grado di ottenere il consenso ampio, per non rendere il documento firmato a Roma l’ennesima vana intenzione europea. E serve avere un chiaro senso delle priorità. Per un Paese come l’Italia, a bassa crescita, bassa produttività, bassa occupazione e alto debito, la prima sfida è costruire una proposta e una rete di alleanze a proposito della decisione che bisognerà assumere tra fine anno e inizio 2018 sul Fiscal Compact, che è extra Trattati e sul quale occorre decidere che futuro riservargli, e come modificarlo. Agli occhi degli anti euro il Fiscal Compact è come il ricatto che Brenno pose a Roma, chiedendone l’oro e gridando guai ai vinti. Al contrario, se esistono politici italiani davvero desiderosi di una cooperazione economica e sociale europea più stretta, il Fiscal Compact va aggiornato ma la convergenza delle finanze pubbliche va sposata: magari ricalibrata, ma non certo ripudiata. Non se ne vedono, sulla scena politica italiana, almeno tra i cosiddetti “leader”.