1
Dic
2017

L’etica non è (solo) benevolenza! – di Giuseppe Antonio Giunta

Il rapporto tra economia ed etica è un argomento molto in voga negli ambienti economici. Il motivo appare chiaro: oltre ad avere una sterminata storiografia, esso risulta ancor’oggi uno dei fondamenti della stessa scienza economica.
Detto questo, la riflessione sembra però molto confusa. A mio avviso sono presenti due errori alquanto banali che ci inducono a credere che economia ed etica siano due settori rigidamente scissi e contrapposti. Il primo è la reductio della dimensione etica alla benevolenza. Il secondo sorge quando l’etica altruistica viene considerata l’unico collante sociale.
Per ciò che concerne il primo errore, è inesatto pensare all’etica solo come benevolenza. La radice greca del termine, ethos, si riferisce a “comportamento” e non specificatamente al comportamento altruistico.
Portiamo un esempio. Quando scambio del denaro per un 1 kg di pane, non mi aspetto che il panettiere provi sentimenti altruistici nei mie confronti: lo scambio, infatti, avviene senza alcun “altruismo”. Per questo motivo, tale ethos sarà legato al soddisfacimento della domanda/offerta. Se invece regalassi del denaro a un mendicante, sul mio comportamento inciderebbero fortemente delle componenti altruistiche: il mio ethos, in questo caso, sarà altruistico. Da un punto di vista formale, a mio avviso, entrambe le azioni rappresentano dei comportamenti, sono degli ethos, anche se dal punto di vista del contenuto le finalità sono chiaramente differenti – soddisfacimento di una richiesta e benevolenza. Ciò che conta è che entrambi siano ethos: che il contenuto di un comportamento sia “giusto” o “sbagliato” è un mero espediente moralistico ed è alquanto irrilevante.
Troppo spesso, quindi, si liquida superficialmente il comportamento “interessato” come anti-etico o senza alcun valore. In realtà, la dimensione dello scambio è un vero e proprio ethos con dei valori concreti: ad esempio, se acquisto del pane presuppongo che il prezzo sia equo, che abbia scelto liberamente in un sistema di libera concorrenza, etc. Anche se la benevolenza non è “necessariamente” inclusa in questo comportamento, ciò non significa che lo scambio debba essere de facto privato del suo carattere di ethos o che non abbia valori.
Ciò ci conduce al secondo errore: è veramente necessario che la benevolenza sia l’ethos determinante del comportamento “sociale”? Rievocando le parole di Adam Smith nel Libro I, Capitolo II della Ricchezza delle Nazioni: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla cura che essi hanno per il proprio interesse.», è doveroso fare qualche considerazione. Noi non ci aspettiamo il nostro “desinare” dalla benevolenza altrui ma dal loro interesse o, meglio ancora, dall’incontro di diverse “utilità”. Per il panettiere è “utile” il mio denaro, per me è utile il suo pane: è solo l’utilità che ci associa.
Allargando questa considerazione a tutta la società, possiamo notare come l’altruismo non si configuri come l’ethos su cui il nostro “socializzare” si erge, anzi. La maggior parte delle nostre relazioni sociali non è affatto basata sulla benevolenza! Per esempio, non è necessario che provi dell’affetto verso il lettore mentre scrivo questo articolo per scambiare con lui le mie modeste idee; né tanto meno è necessario che l’autista del taxi provi dell’affetto quando dal Duomo mi porta allo stadio “Giuseppe Meazza”. La nostra società può tranquillamente sussistere senza che l’altruismo o la benevolenza intervengano nei rapporti interindividuali in modo predominante: è l’utilità il vero cemento sociale.
E proprio come afferma Adam Smith nel Parte II, Capitolo III, Sezione II della Teoria dei Sentimenti Morali, «La società può sussistere tra uomini diversi, come tra diversi mercanti, per il senso della sua utilità, senza alcun amore o affetto reciproco; e anche se nessun uomo in essa dovesse essere soggetto ad alcun obbligo, o avere legami di gratitudine con un altro, sarebbe tuttavia tenuta in piedi da un mercenario scambio di buoni uffici, secondo una concorde valutazione.».
In ultima analisi, la divisione tra etica ed economia non sembra avere solide fondamenta, se non quando viene strumentalizzata per altre finalità. Identificando l’etica con la benevolenza e l’economia con l’egoismo, sembrerebbero giustificati gli interventi statali nella vita economica e sociale di un paese.
Perché? Se riteniamo che l’economia sia solamente l’ambito in cui si sfogano gli egoismi individuali, è necessario che una causa esogena (lo Stato, per esempio?) intervenga per porre un freno a questa (presunta) minaccia sociale – in quanto l’egoismo viene considerato una (presunta) forza centrifuga!
Un esempio pratico potrebbe essere il reddito di cittadinanza, argomento molto dibattuto attualmente. Nell’odierno sistema economico-sociale, un siffatto provvedimento, con forti connotazioni “etiche” – benevolenza sociale verso i meno abbienti – e con finalità “altruistiche” – la sussistenza di chi non ha un’occupazione – avrebbe delle serie ripercussioni sul mercato: infatti, sarebbe necessario incrementare la spesa pubblica e aumentare il gettito fiscale, senza considerare i risvolti psicologici e giuridici sugli individui – sicuramente meno motivati per la ricerca di un impiego e obbligati ad ottenere la cittadinanza per accedervi.
L’obiettivo, però, non è quello di demonizzare l’azione politica en soi: quali altre soluzioni allora? Per esempio, seguendo un ethos “economico”, sembrerebbero convenienti degli sgravi fiscali alle imprese per incrementare le assunzioni: è solo con l’impiego che si può realmente garantire la sussistenza degli individui, nonché la loro dignità.
In fin dai conti, dunque, l’etica non è (sempre) una questione di benevolenza, ma è anche (spesso) una questione economica.

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